La mia storia inizia negli anni ‘20 del secolo scorso, quando un giovane ragazzo di nome Ferruccio, dopo anni di studio e bottega, iniziò a crearmi con le sue mani pazienti e sapienti da un tronco di abete rosso delle Dolomiti. Aveva preso in affitto da qualche anno un piccolo locale al piano terra di una casa signorile, in via Mezzaterra n. 6, in pieno centro storico, a Belluno.
Entrando nella bottega di falegnameria, si notavano, ai lati, le credenze con gli oggetti piccoli e grandi da sistemare e quelli di antiquariato. Più avanti, nella parte finale della stanza, sotto la finestra, era appoggiata una graziosa macchinina di legno intagliato, testimonianza di infinita dedizione e pazienza.
Al centro si poteva scorgere un grande bancone da lavoro su cui pialle di ogni misura assottigliavano le pareti del legno trasformandole in sottili lamelle. Il mio corpo a era nato così: una fusione di legni di abete e di cirmolo, sapientemente scolpiti, intagliati e dipinti. Ci sono voluti due lunghi mesi di lavoro certosino e artigianale per la mia realizzazione. Ferruccio, senza sosta lavorava, a volte canticchiando melodie improvvisate e, in altre occasioni, farfugliando parole incomprensibili verso di me che lo guardavo pieno di speranza e di stupore.
Ricordo che eravamo in piena estate: dentro la bottega non c’era troppo caldo e l’aria era tranquilla mentre fuori le voci dei ragazzi nella piazza animavano il pomeriggio. Al piano sopra lavorava una sarta e, il mercoledì pomeriggio, si udiva un grande andirivieni di cose e di persone: erano le prove degli abiti da signora, imbastiti durante i giorni precedenti. Il lavoro in questa casa di via Mezzaterra procedeva incessante: la sarta confezionava i vestiti più belli della città e Ferruccio, al piano terra, era l’artigiano del legno, sempre determinato e mai stanco.
Dopo ore e ore di lavoro, arrivò presto anche il giorno più importante: la mia nascita! Ero lucido, elegante e bellissimo, tutto era perfetto: la testa e il collo con la criniera intarsiata, le due maniglie ben sagomate, la schiena leggermente curva con la sella colorata, la coda dalle sfumature più scure, le gambe e i due pattini slanciati sui quali potevo dondolare e dondolare all’infinito. Ferruccio mi guardava e ammirava, felice e fiero della sua nuova creatura. Alla fine della giornata mi pose, con grazia, sotto la finestra, accanto a un pallottoliere. La piccola vetrina su cui ero affacciato dava sulla piazzetta, i vetri erano rivolti a nord, senza che i raggi del sole potessero in qualche modo danneggiarmi ma… non rimasi lì a lungo.
La mattina seguente in piazzetta c’era il mercato e si avvicinò alla finestra un bambino che teneva per mano la sua mamma. Sorridevano e guardavano proprio me, poi entrarono in bottega e mi osservarono più da vicino con l’aiuto di Ferruccio.
Il bimbo aveva i capelli rossi e un viso lentigginoso e simpatico; io sentivo che il suo cuore avrebbe deciso senza indugio che sarei diventato suo, di lì a poco.
La madre, dopo aver posto qualche domanda e consegnato del denaro, con un cenno del volto sorrise al figlioletto e lo invitò a prendermi in braccio. Uscii con loro dalla bottega, certo che iniziava il mio percorso di vita, ma con tanta malinconia, perché non avrei più rivisto Ferruccio.
Dopo poco tempo Gregorio, così si chiamava il bambino, iniziò ad andare a scuola, ma il pomeriggio passava del tempo con me. Non era semplice per nessuno passare tante ore dentro in casa perché ormai l’inverno era arrivato, ma io gli tenevo compagnia e Gregorio sorrideva e cavalcava felice sul tappeto lanoso davanti al caminetto.
Insieme viaggiavamo durante la sua infanzia e ancor dopo, accanto a lui, rimanevo ore e ore mentre, ormai ragazzo, ripeteva la lezione di latino del liceo o strimpellava al pianoforte. Eravamo inseparabili, perché Gregorio trascorreva molte ore a casa e cresceva diligente, operoso e lieto e io, con un po’ di polvere in groppa, lo ascoltavo curioso, in silenzio.
Il giovane uomo divenne poi padre e mi regalò a sua figlia Mariasole. Era una bimba dolcissima che si prese subito cura di me e, a differenza del padre, mi trattava quasi come una bambola. Mi faceva il bagnetto, mi accarezzava la criniera scolpita e mi copriva con mantelli di velluto perché pensava potessi sentire freddo.
Mi ricordo che un giorno d’estate mi trasportò persino in giardino sull’erba verde e fresca e io, che avevo sempre cavalcato dentro casa, mi sentivo ancora più contento nel renderla felice.
Mariasole divenne una brava insegnante e, anche da adulta, non mi abbandonò tanto che io abitavo nella sua casa. Un giorno si sposò e più tardi nacque un bellissimo bambino con gli occhi chiari e i capelli biondi; si chiamava Leone. All’inizio il mio posto era vicino alla culla, rimanevo nel mio silenzio e vedevo crescere giorno dopo giorno questo magnifico bimbo.
In occasione del suo quarto compleanno, divenni il suo gioco preferito. Ero felice di trascorrere dei bei pomeriggi in sua compagnia e il mio più grande desiderio era quello di far viaggiare questi bambini attraverso il mondo della fantasia. Come me potevano ridere, cantare e anche piangere se ne avevano bisogno. Ma presto anche Leone diventò adolescente e avevo capito che dovevo fare un passo indietro e separarmi anche da lui, forse dalla sua famiglia e da quella casa.
Arrivai un giorno nella vetrina di un negozio di antiquariato, in centro, e mi ricordai che quella finestra era la stessa dove ero stato posato dopo la mia nascita e, quel negozio, era la bottega dove ero stato creato. Venne verso di me un vecchio leggermente prono, con i capelli bianchi e lo sguardo dolce; lo riconobbi immediatamente: era Ferruccio, il falegname. Di pomeriggio, aiutava suo figlio nella bottega e anche lui sapeva benissimo chi ero io. Dal suo volto si capiva che era felice e trascorreva le ore seduto sulla sua poltroncina di velluto, peraltro in vendita, accanto a me, il suo cavallo a dondolo preferito.