Svogliatezza o mancanza di capacità??”. Queste le parole che si agitavano febbrilmente nella testa della piccola Lidia mentre, terminata la scuola e salutata l’amica davanti all’ultima casa di Montagne, imboccava pensierosa il sentiero che l’avrebbe portata a casa, laggiù nel piccolo borgo di Ave, adagiato sulla riva destra del torrente Caorame.
“Montagne, 18 dicembre 1957. Titolo: Come ci prepariamo al Santo Natale” e poi… un’infinità di righe e scritte rosse a sovrastare due paginette ad inchiostro blu. Infine il giudizio categorico e spietato della maestra sottolineato dal doppio punto interrogativo. La mamma avrebbe letto tutto questo al ritorno di Lidia a casa. Il passo rallentava mentre la mente elaborava convulsamente soluzioni all’inevitabile. Infine la resa. La mamma non si sarebbe arrabbiata, lo sapeva, ma era certa che il giudizio della maestra avrebbe aggravato l’opprimente tristezza che da due mesi era calata sulla loro piccola casa.
Il vestito a lutto che lei e la mamma indossavano, la rassegnata malinconia che avvolgeva ogni cosa, il silenzio rotto dal pianto notturno le ricordavano che il suo adorato e bellissimo papà non c’ era più, trascinato sull’asfalto insieme alla sua bicicletta da un’auto mentre, all’alba, in Svizzera, si recava al lavoro.
Ecco, nel tema avrebbe voluto scrivere che a Natale tutti tornano a casa, che lei si sarebbe preparata ad abbracciare il papà Nani al suo arrivo sul cortile, che avrebbe atteso con trepidazione il momento in cui il valigione si fosse aperto svelando i pacchetti di cioccolato per lei e la sorpresa per la mamma, e che si sarebbe seduta accanto a lui nelle serate invernali per osservare le sue abili mani lavorare il legno. Invece sul foglio bianco avevano preso faticosamente forma pensieri sconnessi e ripetitivi, introdotti da una frase che alla maestra dovette apparire come un affronto: “Io il mio Natale è quello di fare una merenda”. Una lunga ed energica riga rossa a lato del foglio decretava fin dalle prime righe l’inevitabile “fuori tema”.
Il quaderno aperto sul tavolo, il pranzo consumato nel silenzio, lo sguardo basso della mamma suggerirono a Lidia che la cosa migliore che potesse fare quel pomeriggio fosse aprire la stalla alle tre capre per portarle in Piane a pascolare nella radura tra i boschi prima dell’arrivo della neve. Latte e capretti erano un’entrata sicura e preziosa in quella casa e Lidia sapeva che il suo lavoro di pastore si rivelava fondamentale, soprattutto ora che il papà non c’era più.
Indossato mantello e cappello, Lidia si avviò con le sue capre verso il pascolo. Gli zoccoli di legno picchiettavano sul sentiero, mentre lo sguardo vagava intorno alla ricerca di qualche bacca autunnale da mettere in bocca. Seduta sul muretto, al margine della radura, si sentiva a proprio agio più che sulla sedia della scuola. Aspramente rimproverava la capra che si allontanava e affettuosamente accarezzava la preferita che le si avvicinava. Tolti gli zoccoli, si esibiva in goffe capriole, sicura che nessuno l’avrebbe giudicata o derisa. Le ore passarono mentre il buio di inizio inverno calava sulla Val Canzoi. Radunate le capre, Lidia si apprestò a imboccare il sentiero diretta verso casa, quando alle sue orecchie giunsero versi inconsueti provenienti da varie direzioni. Sobbalzò e si guardò attorno. Forse quel dispettoso di Renzo la stava osservando da un po’ e ora la voleva impaurire. Doveva essere così, perché non le aveva mai perdonato quella volta in cui lei rivelò alla maestra l’autore della scritta sulla parete della scuola. Accelerò il passo, mentre il cuore sembrava uscirle dal petto. Alzò lo sguardo verso le Boe, dove da giovane la mamma aveva incontrato e affrontato il Badalìs. Poteva forse trattarsi del sibilo di quell’essere ammaliante… Poi di scatto si volse indietro , verso Cansech, in fondo alla valle, dove la Catha Selvàrega era solita latrare lungamente durante la notte alla ricerca di carne fresca di cui cibarsi. O forse era il verso del Matharòl che la voleva spaventare per punirla della svogliatezza a scuola che aggravava la malinconia della povera mamma.
Ormai sfinita e immobilizzata dal terrore, Lidia si accasciò ai piedi di un grande faggio, chiuse gli occhi e si affidò alla preghiera. Le parole sussurrate si mescolavano al fruscìo delle foglie e allo scorrere delle acque del torrente Caorame.
«Alzati ! Andiamo a casa. È ora di mungere le capre , non senti come belano?!». Una voce ferma, ma suadente e armoniosa al contempo, la fece alzare di scatto. Davanti a lei, in mezzo alle capre, si ergeva l’ essere più grande che Lidia avesse mai non solo visto, ma neppure immaginato. Era un uomo o un animale o uno degli esseri che si divertono, tra i monti e i boschi, a spaventare gli uomini?
Il capo e il corpo intero erano ricoperti di una lunga peluria verde, simile a quello strano muschio che Lidia vedeva crescere e verdeggiare in tutte le stagioni dietro la chiesetta delle Ave, il località la Thela, proprio vicino a casa sua.
Lei aveva sempre immaginato che quello fosse il cibo di cui si nutriva l’eremita che, secondo i racconti dei vecchi, aveva abitato in un tempo molto lontano una cella dove ora sorge la chiesetta di Santa Eurosia alle Ave.
La calma delle capre che seguivano senza esitazione il gigante, la sua voce rassicurante e lo stordimento causato dalla strana situazione, spinsero la piccola Lidia a star dietro a quella inconsueta carovana diretta verso la stalla alle Ave. La luna piena illuminava tutt’intorno il borgo, le acque del Caorame brillavano, le capre tacevano.
Giunto di fronte alla chiesetta, l’essere gigantesco e selvatico si arrestò, prese per mano Lidia e si diresse nel retro del piccolo sacello. «Togliti il mantello e stendilo a terra. Raccogli poi questa pianta, il piede di lupo, che striscia sul prato, fino a riempirne il mantello». Incuriosita dalle parole dell’uomo selvatico, la piccola fece ciò che le era stato ordinato e si avviò quindi in compagnia verso la stalla.
Le capre entrarono in ordine nell’ovile, desiderose, così parve a Lidia, di essere munte quanto prima. Pulite e massaggiate le mammelle delle capre, sistemato lo sgabello, quella montagna d’uomo iniziò a mungere con una velocità e un’abilità che lasciarono la bambina sbalordita.
Avvertì che stava rubando con l’occhio, come diceva la mamma, un prezioso sapere fatto di piccoli gesti, movimenti armoniosi e disinvolti che quella sera fruttarono tanto latte quanto non ne aveva mai visto in una volta sola. Estratto da sotto il fogliame che lo ricopriva un colino di legno, l’essere si rivolse deciso alla bimba: «Passami l’erba da col!». Lidia intuì che doveva trattarsi della pianta raccolta alla chiesetta. Senza esitare ne prese una manciata e la passò all’uomo selvatico che la depose sul colino attraverso il quale versò il latte, ripulito così in un baleno da ogni impurità. «Quanto tempo risparmiato per ripulire per bene il latte! Quanti rimproveri della mamma risparmiati per il lavoro fatto alla meno peggio!», pensò fra sé Lidia.
«Lascia riposare il latte nella caneva e domani, quando lo butterai nella caliera per far formaggio, sentirai che profumo avrà il tuo latte! Ora vai dalla mamma a farle compagnia e, quando domani ti chiederà conto della quantità e del profumo del latte, tu raccontale dell’om selvàrech che ha munto le capre e vedrai che così le farai un bel regalo di Natale».
All’indomani le cose andarono proprio come era stato previsto: le parole di Lidia riportarono alla mente della mamma un piacevole compagno di giochi durante le lunghe giornate piovose trascorse da bambina vivace e spensierata tra i pascoli della valle. Un dolce e delicato sorriso illuminò il volto della mamma, da tanto tempo triste e malinconico. Il cuore di Lidia ebbe un sussulto: il regalo di Natale per sé e per la mamma era arrivato anche quell’anno…