Gioco con le parole che Manrico Dell’Agnola ha scelto per il suo libro “Uomini fuori posto”, uscito nell’ottobre del 2019, perché l’essenza più intima della storia sta appunto nel suo essere integralmente al posto giusto. Il lettore è coinvolto dalla narrazione dell’ostinata ricerca del proprio posto nel mondo, tipica di chi non si ferma alla logica perversa del branco, lottando contro aspettative, pregiudizi, destini già segnati, per garantirsi l’opportunità di un’indagine autentica di se stessi, della possibilità del cambiamento, dell’errore come occasione. L’intento dell’autore è subito dichiarato: contribuire ad avvicinare ognuno a un mondo così meraviglioso, stimolante e romantico come quello delle montagne.
L’esperienza di Manrico si apre con spontaneità, al seguito di un moto d’istinto avvertito all’ombra dell’Agner. Nasce ad Agordo nel 1959 e, pur non crescendo in un ambiente familiare che lo stimolasse all’arrampicata, subisce il fascino esercitato dagli alpinisti di quel tempo, incontrati sui sentieri di montagna: un po’ matti, temerari, fisicamente dotati e spiritualmente elevati. L’immagine di questi supereroi deve essergli entrata sotto la pelle e, pur impegnandosi a fare gruppo con i coetanei, si ritrova disadattato, non riesce a farsi catturare dagli interessi che animano i gruppi di ragazzini, ma spazia, sognando di salire sulle cime delle montagne. Si scopre “diverso”, consapevole del valore della diversità come unicità e mancanza di omologazione.
Un “rusàc”, quattro moschettoni e un martello da roccia Cassin, la sua prima attrezzatura per l’arrampicata, nella mente e nello spirito la ricerca di qualcosa di più, che ancora non riesce ad afferrare. La prima esperienza di ascesa, prima con l’amica di famiglia, la fotografa Gigia De Nardin, e poi con la guida alpina Cesare De Nardin. Da allora un susseguirsi di esperienze, animate dall’eccitazione della scoperta e dal senso di sfida per le salite ripetute e nuove. Negli anni Novanta affronta le cime classiche delle Dolomiti, in cordata e in solitaria, specializzandosi nell’arrampicata veloce, esplorando sia le sue potenzialità che le montagne scalate.
La montagna però non sempre è disposta a perdonare chi l’affronta con senso di sfida, per ricerca di gloria o con la stoltezza dell’inesperienza. Dell’Angola descrive così la capacità che ha sviluppato, dopo aver sottovalutato il pericolo e per questo rischiato: “La sicurezza deriva dall’allenamento, dalla preparazione e da una serenità interiore che nasce dal sentirsi pronti, quasi immortali. Sono grandi momenti che richiedono dedizione e sacrificio”, e continua: “Ascoltando l’istinto non si sbaglia mai. Il nostro inconscio ci lancia continuamente dei segnali e questo succede a tutti. La cosa difficile è captarli e tradurli, distinguere quello che viene da dentro da quello che invece è un condizionamento esterno. Sono convinto che l’enorme potenzialità dell’uomo stia in questo”: l’ascolto profondo di se stessi come infallibile bussola che conduce ad esperienze estreme di superamento dei propri limiti.
Dalle sfide estreme al mondo del cinema
A partire dal 2000 inizia a cimentarsi con la moglie Antonella Giacomini nelle traversate degli immensi ghiacciai continentali della Groenlandia e della Patagonia. Insieme anche a Michele Pontrandolfo e Giuliano De Marchi, in Groenlandia rischia di morire di fame per un errore nei calcoli calorici: si riducono a mangiare gli uccelli morti assiderati.
La fotografia è sempre stata strumento per ricordare e per condividere, e così è diventata la sua professione. La conoscenza e l’amore per la montagna gli permettono di ritrarla nel suo intimo, come se davanti al suo obiettivo si svelasse nella sua delicata nudità: le capacità tecniche e l’esperienza alpinistica gli rendono possibile riprendere in condizioni proibitive, dove ad altri sembra impossibile riuscire a fare uno scatto.
In questi anni sperimenta anche la cinematografia sia come operatore che come attore. Insieme al registra Marco Recalchi realizza documentari sull’arrampicata nei parchi nazionali americani e recita una parte nel film “Ciò che le nuvole non dicono”. L’ultima fatica come regista è “Donna Fugata”, storia della ripetizione in libera della via omonima sulla Torre Trieste aperta da Cristoph Heinz. Un’esperienza professionale ed umana importante riconosciuta con premi nazionali e internazionali.
Ora sta lavorando alla realizzazione di un film sull’ultima spedizione alpinistico – scientifica in Antartide. E anche quest’anno condivide con gli appassionati, gli scatti sulle Dolomiti con la 18^ edizione del calendario 2021 Archive 18.
Cosa ti spinge a continuare a scalare?
“Continuo ad arrampicare perché è l’unica cosa che alla fine mi piace veramente: andare in montagna. Invecchiando mi sono liberato del superfluo per godere del gesto tecnico e atletico, anche fine a se stesso, se poi la magia avviene lungo una parete dolomitica…cos’altro chiedere?”