La storia degli ungulati nella nostra provincia si accompagna alle vicende umane dell’ultimo secolo. Ma chi sono questi ungulati? Il termine mette insieme tutti quelli che ”camminano sulle unghie” e quindi parliamo di cervi, caprioli, mufloni, camosci, stambecchi e… cinghiali! I primi sei, però, viaggiano con quattro stomaci (sono ruminanti) mentre il cinghiale (come il maiale, suo discendente) si accontenta di uno solo… ma che stomaco!
In principio fu il capriolo. Lui solo. Alla fine della seconda guerra mondiale le nostre montagne erano più o meno come lo erano sempre state almeno negli ultimi due secoli.
Le valli erano abitate e coltivate con i versanti ammantati di prati e coltivi mentre i boschi erano lasciati nelle zone più impervie. A quel tempo la bestia più grossa che si aggirava era il capriolo, con i suoi 20 kg e i suoi quattro stomaci voraci ma delicati, piluccava i teneri germogli ed entrava furtivo negli orti. Gli è andata grassa fino agli anni ‘90 del secolo scorso: attorno a lui era un fiorire di prati abbandonati che si riempivano sempre più di arbusti e alberelli con le tenere e succulente gemme proprio all’altezza giusta.
Poi qualcuno, preso all’inizio per matto, trovò sul terreno impronte come quelle del capriolo, ma grandi come quelle di una manza. Inizia così l’era del cervo. Il più grande e vorace dei nostri ungulati, con i suoi 100-180 kg, arriva da nord-est, complice pure qualche fuga dal grande recinto di Paneveggio.
Il cervo è un gran pascolatore, è il vero re della foresta, che lo protegge e lo nutre. Meno esigente del capriolo, bruca tutto quello che gli capita a tiro, dalle verdure alle mele, ma nella brutta stagione riesce a nutrirsi anche della corteccia degli alberi. Non solo la stazza differenzia le due specie. Mentre il signor capriolo si consuma dietro ad una sola femmina sotto il sole di agosto, i maschi di cervo aspettano le brume di settembre per combattere a voce con potenti bramiti, e a volte fisicamente, per conquistare più femmine possibile.
Una storia analoga la raccontano il camoscio e lo stambecco, relegati, per decenni o forse secoli, su in alto, al margine dei ricchi pascoli. Ormai ridotti a numeri esigui, con i soli salti di roccia a difenderli dai più arditi cacciatori, dal secondo dopoguerra hanno visto l’abbandono di molte malghe. A quel punto sono scesi di quota, approfittando pure delle tenere erbette sulle piste da sci.
Il tranquillo e maestoso stambecco è sempre rimasto limitato alle Marmarole e alla Marmolada. Per il camoscio, la creazione del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi ha avuto tra i suoi maggiori successi la protezione del camoscio dal bracconaggio, incrementandone la densità in modo significativo, soprattutto nella zona delle Vette Feltrine. Ma alla fine degli anni ‘90, per camoscio e stambecco, arriva da nord-est un piccolo animaletto: un acaro che provoca la rogna sarcoptica, una tortura che devasta la pelle del malcapitato, debilitandolo, spesso fino a morire. Dove passa la rogna, rimane una quota minima di soggetti, quelli resilienti agli attacchi dell’acaro e che ne sono guariti. Adesso quest’onda sta attraversando le nostre montagne, ma già dalla zona dello Schiara il numero di camosci sta risalendo.
Una storia a parte è quella del muflone, il cugino selvatico della pecora domestica. La sua è una storia di catture e trasferimenti: arrivato con l’uomo neolitico alcuni millenni fa dall’Asia Minore in Sardegna (che ospita l’unica popolazione “storicamente” autoctona), nel secolo scorso è stato poi portato sulle Alpi dai cacciatori. Famoso è il rilascio in Val Scura, a metà anni ‘70, di una decina di soggetti che hanno poi dato vita alla popolazione di mufloni che ora frequenta i versanti meridionali del Parco, da Cesiomaggiore a Sospirolo fino a scavallare in comune di Gosaldo. Ne troviamo altri piccoli nuclei in varie zone della provincia (Agordino, Cadore, Alpago), ma pur essendosi adattato al nostro clima, gli è rimasta la memoria genetica dei versanti caldi e aridi, aspri e rocciosi del mediterraneo ed istintivamente li ricerca anche qui. Altri aspetti da “mediterraneo” sono rimasti il suo odio per la neve e il periodo dei parti a marzo- aprile che può esporre i piccoli a pericolose primavere fredde e piovose.
E, per la rubrica “a volte ritornano”, ecco il cinghiale. Custodito a palazzo Crepadona a Belluno, il sarcofago di Flavio Ostilio Sertoriano e della moglie Domizia con l’effige di una caccia al cinghiale del II secolo d.c., ce lo racconta molto bene. Il cinghiale un tempo abitava le nostre foreste, ma il branco di piccoli carri armati che ora ci compare improvvisamente davanti ai fari dell’auto, ha poco a vedere col suo antenato. A causa di continue e cospicue immissioni di animali di varia origine (incrociati pure con i maiali domestici!) ora ci troviamo davanti ad animali più grossi, meno timidi e seguiti spesso da una gragnuola di figli che sfornano anche due volte l’anno. Nel nord Italia in generale, la comparsa del cinghiale negli ultimi cinquant’anni, ha origine spesso imputabile ad opere di ripopolamento illegale.
In provincia di Belluno è arrivato da sud, trovando nelle nostre valli il suo habitat ideale: cibo vario per tutte le stagioni, estesi versanti boscati con scarsa presenza umana e vasti pascoli dove uscire a scavare tuberi e radici. Poi, come il maiale, è onnivoro e divora ciò che è mangiabile, pure piccoli animali terrestri e carogne! Per non parlare dei problemi sanitari che può portare, come la peste suina terribilmente contagiosa e letale per gli allevamenti di suini domestici e che si sta affacciando in Europa.