Sarà che nell’età della fantasia, l’infanzia, questi mastodontici mezzi di trasporto sembrano passaggi verso un mondo sconosciuto carico di meraviglie e aspettative, che, da adulti, i treni rimangono mezzi pregni di significato tanto da rivestire, a pieno titolo, il ruolo di protagonisti in molte produzioni artistico letterarie.
Da L’assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, alla Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, per citarne due tra i più noti, i treni percorrono pagine su pagine di racconti e romanzi. Come non mancare, quindi, nella ricca produzione dello scrittore e giornalista Dino Buzzati, fautore del fantastico, sempre in viaggio per il mondo, sempre di ritorno a Belluno, sua terra natale. Dei molti treni buzzatiani (esclusi quelli che conducono i soldati al fronte o che deragliano in toccanti articoli di cronaca nera), il più famoso tra tutte è sicuramente quello su cui viaggia il protagonista del racconto Qualcosa era successo (raccolto in Il crollo della Baliverna e poi ripubblicato in Sessanta racconti), insidiato dall’assillante dubbio e la crescente preoccupazione di andare incontro a un pericolo inevitabile. In Direttissimo (sempre tratto da Sessanta racconti), un banale viaggio, intervallato da brevi soste in alcune stazioni, diviene metafora della vita stessa:
«Feci appena in tempo a raggiungere il mio treno che si rimetteva lentamente in moto. “E pazienza” io pensavo “sarà per un’altra volta, quello che conta è di non perdere la corsa.”».
In realtà sono proprio tutte le tappe perse lungo il tragitto ad acquisire valore alla fine di quello che è stato un viaggio ostinato verso una meta tanto agognata e, sia essa un traguardo o l’epilogo della vita stessa, la ben nota morale dell’autore del Deserto dei Tartari ancora una volta ci mette in guardia da una vita spesa ad aspettare invano il momento giusto. Dopotutto c’è sempre quel pirandelliano fischio del treno che smuove nella coscienza di ciascuno di noi qualcosa di radicato nel profondo; è quel suono che puntualmente ci sorprende quando la monotona andatura e lo scorrere del paesaggio creano una sorta di trance che ci fa sprofondare nelle nostre riflessioni:
«Poi case case stabilimenti gasometri tettoie case case ciminiere androni case case alberi orticelli case tran-tran tran-tran i prati la campagna, le nuvole viaggianti nell’aperto cielo!».
Lo spazio scivola, così come il tempo, inesorabile, e si affianca al procedere del progresso, come nella vicenda narrata nell’emblematico Velocità della luce (raccolto in Le notti difficili, 1971):
«Si sente dire che su per la Val Rita salirà la vaporiera. Nei casolari che fumano ai bordi sommi dei boschi, da dove si vede laggiù il paese come un giocattolo, certi vecchi nonni seduti al fuoco scuotono il capo: la ferrovia, la ferrovia, la smania degli uomini pazzi».
Nel racconto si susseguono la grande inaugurazione, bandierine, gioia, assunzioni, casette, stazioni, tunnel, trafori, la meraviglia e poi… l’entusiasmo scema.
«Due mesi fa è passato l’ultimo treno, era febbraio, con la neve. I terribili colpi di mazza quasi non si odono, dato il catastrofico rombo dei camion uno dopo l’altro sull’autostrada vicina».
La corsa all’impazzata verso la modernità ha stravolto e trascinato via un intero mondo. Solo l’ultimo casellante è rimasto, come uno spettro; lo stesso casellante fantasma già presente in Poema a Fumetti, la prima graphic novel italiana ante litteram, oppure quello raffigurato in Il trenino di Cortina, olio su tela del 1967. Buzzati infatti non tralascia di esaltare, quali paladini di un mondo dimenticato, i casellanti, figure schive ma emblematiche, i soli capaci di intervenire sulla marcia dello sbuffante leviatano. È il caso della coraggiosa Giacoma Triburzi che, in I miracoli di Val Morel, interviene con la sua sola presenza e una lanternina a scongiurare un disastro ferroviario. Nel buio della notte singole luci illuminano la via, rischiarando l’oscurità e la nera scocca dell’ incalzante locomotiva lanciata a tutta corsa verso l’ignoto:
«Con un ritardo di anni e anni accumulati, siamo così di nuovo in viaggio. Ma per dove? […] Quanto è lontana l’ultima stazione? Ci arriveremo mai? Valeva la pena di fuggire con tanta furia dai luoghi e dalle persone amate?».