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Memorie di vita in alta quota

la vocazione alla caccia di Severino Pagnussat

Memorie di vita in alta quota

la vocazione alla caccia di Severino Pagnussat
3_severino pagnussat_ph Maurizio Bugana

Le figure “leggendarie”, anche quelle locali, nascono quando lasciano un’impressione indimenticabile sul prossimo grazie alla propria vocazione: Severino Pagnussat di Cergnai aveva trovato la sua nella caccia in montagna.

Gli amici, quelli più cari, raccontano che Severino avesse un carattere burbero ma con un cuore grande. Dicono che fosse una persona onesta e generosa e che sapeva vivere: il lavoro nei cantieri, lontano da casa, lo aveva aperto all’incontro con il mondo. Non si sposò, anche se ci andò vicino. Amava molto i suoi nipoti, i figli del fratello maggiore Adriano, in particolare Damiano con cui condivideva la stessa passione per la caccia. Nella famiglia di Severino erano tutti cacciatori: il padre Mario, i fratelli Adriano e Fermo, il nonno materno Benvenuto e anche un fratello della mamma, lo zio Antonio.

Adriano e Fermo per un periodo della loro vita si trovarono anche dall’altra parte della barricata e da cacciatori divennero guardia caccia.
Severino il guardia non lo fece mai; semmai, obbligato dalla vita, cercava di fuggire alle guardie, ma non sempre ci riuscì. «È lui che mi ha insegnato i viàz del Tre Piére e del Pievidùr», racconta Fermo «ma tra di noi c’era molta rivalità, anche se eravamo fratelli. Aveva il cuore meglio del mio, ma nella caccia era un dittatore puro e non si andava d’accordo».

Una mattina di ottobre, agli inizi degli anni 80, Severino è sul Zimón del Tre Piére e con il binocolo vede i camosci sulle cime del Pievidùr. Scende verso la Forzèla Bianca e poi giù in picchiata fino sul Sentà; da lì risale el Valón del Pievidùr fino sulle cime dove ha visto i camosci, ma non li trova. Ormai si è fatta sera e due cacciatori, Valter De Bastiani e Oliviero Vergerio, stanno scendendo dietro il Passo Forca con un camoscio nello zaino, quello che aveva visto Severino. «Sembra facile a raccontare queste cose», ripete Fermo «ma bisognerebbe vedere e provare per capire quanto impervie e difficili sono quelle zone lì». Quella sera Severino non scende a valle, si fermerà a dormire nel suo cógol in Pievidùr, un piccolo riparo sotto roccia conosciuto anche da suo padre.
Severino lo ha allargato e sistemato, al suo interno c’è una cassa in acciaio, contiene viveri e materiali per bivaccare; a portarla lassù sono stati Fermo e Maurizio Bugana, l’amico di memorabili cacce.

«Uno dei momenti più belli» racconta il dottor Bugana «era stare insieme a Severino a bere il caffè nel suo cogól e fumare una sigaretta di trinciato forte che mi preparava. Si saliva anche nei periodi fuori caccia, solo per il piacere di stare lassù in compagnia. Parlavamo di tutto, meno che di donne, sapeva che avevo fatto il seminario ed evitava l’argomento».

Severino era un cacciatore molto orgoglioso, sapeva che non era da tutti fare certi percorsi e nei punti più difficili lasciava la sua firma, un modo tutto personale di marcare il territorio: vernice rossa con frecce, l’anno, le iniziali del suo nome e anche bossoli cementati. Segni di una territorialità estrema, di cacce dal sapore arcaico, l’ultimo anello di una catena che ci univa a un lontano passato. Oggi quel mondo non esiste più e nemmeno esistono i cacciatori come Severino, Adriano, Virgilio Casagrande, Lino “Biotto” e Fermo. Per questo quei segni andrebbero conservati e catalogati come “scritture rupestri”, come memoria di vita in alta quota, prima che il tempo le cancelli.
Dai vecchi cacciatori Severino aveva appreso i luoghi delle poste e i viàz per le parade. Di suo aveva un’abilità di movimento sul ripido inimmaginabile per chiunque oggi frequenti quel mondo. Era un atleta del selvatico, si muoveva e ragionava come un camoscio e senza praticare l’alpinismo maneggiava corde e chiodi, arrampicava con zaino e armi e poteva bivaccare ovunque.

Una sera sul finire dell’inverno, Fermo è appena rientrato dalla cartiera dove lavora, i famigliari lo informano che suo fratello non è tornato a casa e che ha lasciato sul tavolo “una carta”. Capisce che la cosa è seria.

Qualche giorno prima Severino era stato in ospedale e aveva visto le espressioni dei medici mentre guardavano le sue lastre sul diafanoscopio. La diagnosi purtroppo non lasciava molte speranze. Più volte aveva detto al fratello e agli amici che, se gli capitava una cosa come a Vergerio, avrebbe trovato lui un rimedio. Normalmente chi dice una cosa del genere poi non la mette in pratica, ma non Severino. Pochi giorni prima era andato per l’ultima volta a vedere i camosci sul Boràl de le Mole, li aveva visti correre veloci verso le creste, dove c’è quel larice che si vede anche da Cergnai.
Severino è morto il 23 marzo 2000, aveva 66 anni.

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