Alcuni giorni fa sono casualmente venuto a conoscenza della ricorrenza dei 400 anni dalla morte di Carlo Saraceni, un artista veneziano che, seppur considerato tra i più interessanti del Seicento, rimane sconosciuto ai più, anche a noi Santagiustinesi che da 399 anni custodiamo, prima nella Scoletta e poi nella nostra parrocchiale, forse una delle sue ultime opere.
Eppure gli ingredienti per farne una star ci sarebbero tutti: bravo, bello e misterioso, dicevano. E morto giovanissimo, ad appena 40 anni.
Lo storico dell’arte Claudio Strinati lo considera come l’erede di Caravaggio, ma dotato di una sua autonomia espressiva e stilistica che fonde il tenebrismo seicentesco con le luminosità coloristiche della rinascenza veneta, che sanno di Tiziano e tanto di Lorenzo Lotto.
Trasferitosi non ancora ventenne a Roma, Carlo Saraceni lavorò nella capitale per un’importante committenza sia aristocratica che ecclesiastica fino alla fine del 1619, quando fece ritorno a Venezia ospite dei Contarini di San Trovaso, chiamato probabilmente per realizzare un prestigioso telero nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale. Opera che non riuscì a completare, essendo sopraggiunta la morte per tifo petecchiale nel giugno del 1620, dovendo così essere portata a termine dal Le Clerc suo allievo, collaboratore e amico.
In passato, proprio per giustificare l’incongruenza della data 1621 (un anno dopo la morte del pittore) leggibile sulla pala del Saraceni conservata nella chiesa di Santa Giustina, era stato analogamente ipotizzato l’intervento del Le Clerc nonostante l’opera sia invece firmata dal maestro. Ipotesi tuttavia sconfessata anche dall’importante mostra romana del 2013 “Carlo Saraceni un veneziano tra Roma e l’Europa” in quanto la data 1621 sembra fosse stata aggiunta in un momento successivo per ricordare l’anno di fondazione ufficiale della confraternita committente: la Scola della Madonna o confraternita dell’Annunziata, che aveva sede in quel piccolo edificio vicino alla chiesa parrocchiale di Santa Giustina conosciuto come “Scoletta”.
Per tale motivo il soggetto del quadro non poteva che essere l’episodio evangelico dell’Annunciazione dove, come è noto, Dio invia l’arcangelo Gabriele ad annunciare a Maria la nascita di un figlio concepito dallo Spirito Santo. Maria, intenta o a leggere un libro di preghiere o a cucire il velo per il Tempio, dapprima ne rimane turbata, per poi inchinarsi ed abbandonarsi alla volontà di Dio.
Saraceni ne riesce a dare un’interpretazione originale ed efficace tanto che venne riprodotta in due copie pressoché coeve: una conservata presso la sacrestia della Cattedrale di Feltre, dipinta nel 1626 da Girolamo Zigantello, l’altra di un anonimo pittore del XVII secolo nella chiesa di San Lucano a Paderno.
Ma ora tentiamo per un attimo di entrare con gli occhi in questa bellissima Annunciazione, magari partendo dal cesto da sarta, quasi una natura morta, dal quale straborda attorcigliato il velo di un bel bianco lottesco, per poi seguire lungo la nuda sensualità del piede esibito dalla giovane Maria e salire su, seguendo la spirale barocca delle sue vesti, un movimento sconcertante, una tensione che si annulla man mano giungiamo allo splendido volto, immobile ed in estasi alla rassicurante vista dell’arcangelo Gabriele. La luce di Dio squarcia l’oscurità della stanza ed entra in Maria il cui viso sembra, più che riflettere, emanare una propria luce.
Ed infine scendiamo con lo sguardo, giù verso la bella sedia impagliata. È rivolta verso di noi, tra luce ed ombra, in un’inquietante prospettiva che le dà una strana dimensione metafisica, quasi spettrale. Su di essa sta chiuso il piccolo libro di preghiere che riverbera innaturalmente il rosso della sua copertina lungo tutta la striscia di telo bianco, forse un lenzuolo o forse la stessa cinta sciolta e abbandonata di Maria. Tra Annunciazione ed Incarnazione, tra umana inquietudine e divina rassicurazione…