È una mattinata di profumi di primavera, in quel bel giardino, che accoglie i graditi ospiti. Siamo a San Fior di Treviso, dove l’artista Gino Silvestri intenderebbe incontrare quel suo vecchio amico per dedicargli un’inedita opera d’arte. Un incontro per rinverdire memorie ma anche, perché no, lanciare considerazioni e moniti per il futuro.
Giacomo Coppe (nato il 10 febbraio 1927) ci accoglie così con la sua giovanile governante, sorridente, che versa uno dei preziosi vini prodotti in quelle vicine colline. La graziosa villetta è la terza in quella via, le altre son state riservate ai figli da quell’infaticabile “Bocia” giramondo. Una vita in Argentina, nel dopoguerra, lo ha portato a dedicarsi a diverse attività sempre con un combattivo quotidiano spirito. E nostante quello… «purtroppo – ci confida – non vedo ancora un futuro come mi aveva fatto sperare l’esperienza partigiana. Non è che pretenda chissacché ma almeno che non siano calpestati gli ideali di giustizia sociale e libertà. Non mi pento di esser stato partigiano se occorresse, per le nostre genti e per ridare dignità all’Italia, lo rifarei di nuovo». Quanta attualità in quelle parole…
Il racconto di quella volta, di quel ricordo del periodo bellico alla fine della seconda guerra mondiale, affiora subito indelebilmente trasudante di emozione. Si trattava di andare in una missione non priva di rischi al poligono di Salce per veder di procurarsi in qualche modo armamenti e munizioni. Giuseppe disse di attraversare la Piave al guado, conoscendo bene i luoghi, e di non passare sul ponte, quel grande ponte di San Felice fra Trichiana e Sedico costruito pochi anni prima.
Gli altri undici decisero “de non andar tanto in olta” mandando avanti un’avanguardia formata da quattro persone. «E allora ho dit tra i quali mandeme anca mi, a quel temp avee diciassette anni, son del ’27. Quando che son andati avanti, quei da drio, invece de spetàr che se ndése de là, i è gnesti dentro. I tedeschi no ghe ha gnanca parest vero parché i se era nascosti drio i buscàt. Quando che son rivadi a vinti metri dalla testada del pont, da drio i ha fatto an colpo e ‘l me compagno a fianco l’ha dit: “Cossa spàreli da drio” e al ha ciapà na raffica piena quà (indicando il petto). Mi son ndat là par veder come recuperarlo, parché credèe che i fusse sora la rocia. Intant riva quell’altro che l’era drio de lù el ha fatto la stessa fin… Mi vede che no le gnent da far e ciàpe e vàe via cuccioloni. A destra, come che fae par ndar, vede quell’altro che càsca soreghe al primo mort. Allora ho pensà de correr via sot la roccia… che se i è sora me salve; quando invece vae de là e me bùte dentro an bùs sulla riva, alze la testa e vede sul lato sinistro tre, quattro todeschi. E quei i avea cominzià a sparar… no, i avea cominzià subito ma sol dopo al primo colpo…».
“Ma ti che te era da vizin no te ghe ha tira?”, gli chiedo.
«Eh, chi che sà – ci risponde – se te avesse vist che che l’éra… le giàre che gnèa sù e sul parapét de cemento tuti fòghét da tuti i càntòi, lori no crede gnanca che i me abie vist. E fàe ché col 91 (vecchio fucile della prima guerra mondiale) che avea fenì i colpi… ghe orèe che èsse avú na bomba a man…».
Riuscì, unico dell’intero gruppo, a salvarsi nascosto fra il fogliame. Solo il pomeriggio riuscì a raggiungere, con un pericoloso cammino, il papà, casaro sulle Prealpi della sinistra Piave, che rientrando verso casa gli disse se aveva sentito ciò che era successo al ponte di San Felice. Quando gli precisò che: «Eh, ghe n’ere anca mi!» continuarono il cammino in un pesantissimo interminabile silenzio.
Tutti gli anni il luttuoso fatto viene rievocato sui luoghi dove è stato collocato un monumento in un evento pubblico partecipato dalle intere comunità locali.