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La S’ciara de oro

tra leggenda e realtà

La S’ciara de oro

tra leggenda e realtà
Schiara - Alessandro Sogne

Abitare la Valbelluna è un po’ come essere sempre avvolti in un rassicurante e imponente abbraccio. Sono lì, torreggiano giorno e notte sulla valle, mese dopo mese, anno dopo anno, così silenziose che molti non ne notano la presenza per anni, talmente sono abituati alla loro vista. Anche per me è stato così. Sono fuggita dalle montagne come un’adolescente che si ribella alla potestà genitoriale, in cerca di un miraggio di libertà tra paesaggi dove la pianura lascia più spazio all’azzurro del cielo.

In uno strano giro di boa, questa ricerca mi ha riportata sulla via di casa e proprio allora gli occhi non hanno potuto non soffermarsi su quelle sagome frizzanti dall’andatura irregolare e dal sapore così familiare. Fu allora che, come afferma Dino Buzzati, l’idea di conoscere tutte quelle cime divenne “una meravigliosa fissazione”.

Tra tutte le cime ce n’è una che al mio sguardo spicca per bellezza, per i colori chiari e lucenti della sua roccia, per le sue pareti dolomitiche e inaccessibili. È la Schiara, con la sua maestosa Gusela del Vescovà. Mi sono di recente imbattuta nel volume “La S’ciara de oro. Monti di Val Bellùna”, in cui Piero Rossi racconta un’antica e affascinante leggenda sull’origine del nome di questa montagna che da secoli rapisce con la sua bellezza gli animi degli abitanti della valle su cui veglia.

E con la sua bellezza rubò il cuore anche a San Martino, che, nel corso del suo errare, giunse su questa vetta incantevole dopo aver attraversato valli orride, impervie e colme di tranelli demoniaci. Dalle cime innevate del Nord fino al mare Adriatico, un panorama così immenso e smisurato che nemmeno gli occhi di un santo possono riuscire a cogliere in una volta sola, ma che con il suo vuoto può riempire di sensazioni inverosimili anche l’animo più aspro. Così, sospeso tra cielo e terra, San Martino scelse quel luogo come tappa prediletta per i suoi viaggi alpestri e, per poter legare il suo destriero durante la sosta, conficcò nella roccia un anello di ferro che si tramutò presto in oro purissimo. La “S’ciara” era il termine con cui i nostri vecchi chiamavano l’anello, in particolare quello nunziale, e così nacque il nome di questa montagna.

I più credono che il nome “S’ciara” derivi dalla straordinaria finestra a forma di anello sulla cresta che collega la Cima di Mezzo delle Pale del Balcòn con la Cima delle Pale Magre, la Finestra del Balcòn appunto. Ma sono ancora molti gli alpinisti che cercano con sguardo speranzoso il prezioso anello mentre risalgono affannati le pallide rocce, convinti che la “S’ciara” sia ancora lassù, celata da qualche croda, in un luogo dove nessuno ha ancora posato lo sguardo.

Forse è questo il senso nascosto del raggiungere una vetta, ciò che Piero Rossi definisce il “sogno meravigliosamente inutile e deliziosamente inappagabile” rappresentato dall’aspirazione di una méta che non è mai tale. Ebbene, lo sposalizio tra la Schiara e il Santo diviene il simbolo di ogni alpinista che decide di risalire i pendii del monte, donando sacralità a ogni goccia di sudore, ogni respiro affannato, ogni graffio inflitto dalla roccia.

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