Correva l’anno 1948. Da qualche anno a Limana era sorta la “Cooperativa della Cicogna”, una fabbrica di sapone da tutti meglio conosciuta come la saonera dei belùmat. Il piccolo laboratorio artigianale era sbucato proprio al confine con Visome, presso le fresche sponde del torrente Cicogna, dove oggi si trova il campo sportivo di Limana. Ma, ahimè, spesso i proverbi la sanno più lunga di noi: è proprio il caso di dire che chi ha il pane non ha i denti. E sulla presenza della fabbrica di sapone non ci pioveva, ma in tutta la provincia di Belluno non si trovava nemmeno un saponiere. È superfluo aggiungere che, senza qualcuno che conoscesse l’arte a dovere, la piccola attività era destinata a spegnersi in una scintilla, così come era nata.
Ma questa è una storia destinata ad avere un lieto fine. A Polpet viveva un fornitore di materie prime per la saponificazione, che per raccogliere e rivendere l’ingrediente più importante, gli scarti di grasso animale, girava in lungo e in largo, fino in provincia di Venezia. È proprio a Mira che egli conobbe Ferruccio Salviato, un signore che nel dopoguerra produceva artigianalmente il sapone nella propria casa. Ferruccio, nato nel 1905, aveva imparato l’arte della saponificazione dall’inquilino che viveva al piano di sopra della sua abitazione, il Capo saponiere della Mira Lanza, la storica azienda italiana produttrice di candele steariche, saponi e detersivi, e che aveva uno stabilimento proprio a Mira, come lascia intendere anche il nome.
Impara l’arte e mettila da parte! Che a volte l’arte può cambiarti la vita. Il commerciante bellunese, che ben conosceva le difficoltà della saonera bellunese, non mancò di prendere la palla al balzo e portare Ferruccio dalla laguna fino alla montagna. Il saponiere veneziano accettò così di buon grado di aiutare la giovane impresa e presto si abituò anche alla vita limanese, tanto da rilevare l’azienda nel 1958 e stabilirsi con la famiglia nell’appartamento al piano di sopra del laboratorio. Ebbe così inizio la storia della saonera dei belùmat, che rimase operativa fino agli inizi degli anni 90, momento in cui le grandi aziende e gli standard qualitativi presero il sopravvento lasciando tutto d’un tratto da parte le piccole realtà artigianali.
Per fare il sapone c’era innanzitutto bisogno della materia prima: acqua e scarti di macelleria contenenti grassi animali, talvolta anche l’olio esausto dei ristoranti. Il tutto veniva messo in degli enormi recipienti dove il grasso veniva sciolto e a cui veniva aggiunta soda caustica, sale per la decantazione, colofonia o pece greca (una resina) e un tocco di profumo.
E poi l’immancabile ingrediente speciale: l’olio di gomito! Infatti, tutto veniva fatto artigianalmente in casa, senza l’aiuto di sofisticati macchinari o marchingegni salva-fatica. Il composto liquido veniva colato in degli stampi grandi in legno dove veniva lasciato a rassodare. Una volta solidificate, le lastre di sapone venivano portate al piano superiore. Lì c’era una macchina che, azionata manualmente, tagliava il prodotto in 3 tipi di grammatura: 200, 300 e 400 grammi.
Ottenute le saponette, si passava allo stampo del marchio. Ogni pezzo veniva timbrato uno ad uno dalla famiglia di Ferruccio: su un lato veniva impresso il marchio Mira-Belluno, sull’altro la descrizione delle caratteristiche del sapone.
Finalmente pronte, le saponette partivano per raggiungere i negozi di tutta la provincia. Le ossa invece avevano un ciclo a parte: venivano prima cucinate e poi trasformate in un prodotto farinoso che veniva venduto come integratore per i mangimi per animali.
Una vita a fare il sapone. Un mestiere in cui Ferruccio aveva inevitabilmente coinvolto tutta la sua famiglia, dai figli ai nipoti. Marina, la nipote, ha ancora dei ricordi bellissimi. Come quando si alzava prima dell’alba, alle tre del mattino, e partiva in camion con suo padre per girare le macellerie e ritirare gli scarti animali. Dal Friuli al Trentino, infiniti i chilometri da percorrere, ma le ore insieme erano così belle da non bastare mai. Non c’era mai tempo di pensare alle ferie, i sacrifici erano molti e gli imprevisti sempre dietro l’angolo. Come quando si rompeva l’autoclave per la colatura del grasso e i vermi conquistavano inesorabilmente i resti animali in attesa di essere utilizzati, per non parlare dell’odore che rendeva densa l’aria. Ma una cosa alla saonera non mancava mai, ed era proprio il buonumore.