Fin dal basso medioevo tutti i villaggi (detti talora colmelli) dell’area dolomitica, e quindi anche del territorio feltrino, si riconoscevano in delle istituzioni dette Regole. Ogni Regola poteva riunire anche più villaggi tra loro, sempre allo scopo di gestire, darsi appunto delle “regole” per meglio presidiare, coltivare, organizzare campagne, vigne, torrenti, prati da fienagione, boschi e pascoli per tradizione disponibili all’uso della comunità. A capo della Regola veniva eletto un Mariga che aveva, tra gli altri, il compito di convocare l’assemblea, detta anch’essa “Regola”, dove si discutevano dei problemi di gestione dei beni collettivi e si votavano delle norme da osservare. Quando queste norme erano considerate di particolare importanza, venivano legalizzate da un notaio, prendendo così il nome di Laudo (dal latino “laudamos quod” ovvero “decidiamo che”), Statuti oppure semplicemente Regole.
Già note1, per i territori a noi più vicini, sono ad esempio le Regole di san Gregorio, Formegan, Villabruna-Umin o la famosa Regola Grande delle Rosse (che riuniva i villaggi di Meano, Dussano, Callibago, San Martino, Colvago, Ignan, Salzan, Grigher e Campo).
Ultimamente, scartabellando tra gli atti del notaio feltrino Roncen Nardino, mi sono imbattuto in un Laudo che riguarda la Regola di due villaggi: “Lauda et Statuta della Regola de Marsiajo et Lasserajo”. 2
Il documento porta la data 1 di Agosto 1513 e fu pubblicato ed annunciato “sopra una certa grande pietra a ciò deputata in villa Marsiajo nel loco solito dove la Regola è solita congregarsi” a presenziare l’assemblea (composta da quattro regolani di Marsiai e due da Lasserai) stavano due nobili feltrini: Antonio figlio del fu Giovanni Villabruna e Romagno figlio del fu Landrisio da Romagno. Il notaio Nardino subito chiarisce il fine dello statuto, ovvero il ben reggere e governare le proprietà comuni, pronunciando solennemente il motto latino “Ubi non est ordo ibi est offusio” ovvero dove non c’è ordine regna la confusione.
Di seguito vengono elencate le varie norme precedute dalla frase di rito: “Statuimo et ordininamo che…” dalle quali ricaviamo alcune informazioni interessanti e curiose. Interessante, soprattutto per la toponomastica, è la prima norma che riguarda il bosco detto di “Selvella”, ovvero l’odierna Seravella, bosco che è delimitato a mattina ed a mezzogiorno dalle acque del “Larmian” (il Rumian), a tramonto dalle acque della “Semelega” (la Salmenega) e dal “pra de Selvella”, a settentrione dai boschi di Villa di Pria. Si stabilisce quindi che detto bosco sia “per sempre et in perpetuo bandito” ovvero vietato sia ai regolani che ai “foresti” il far legna e raccogliere “spine”(che venivano usate o vendute per fare recinzioni) sotto la pena di 19 soldi per ogni carro preso in flagrante dai “saltari” (una sorta di guardiaboschi dell’epoca) come pure veniva vietato il portar via sassi in spalla “sia da homini che da donne”.
La legna potevano farla, su autorizzazione del Mariga, solo i regolani a cui era capitata la “sorte” del bosco: ovvero venivano proprio sorteggiate delle quote del bosco da assegnare ad alcuni regolani che avevano sì diritti di esbosco, ma anche doveri di manutenzione, sistemazione, liberazione delle parti comuni dagli “stroppi”, ovvero recinzioni, siepi e impedimenti vari fatti da confinanti privati, come pure il dovere di segnalazione e denuncia se vedevano qualcosa che poteva arrecare danno al bosco stesso.
Dopo le diverse norme relative alla gestione del bosco di Selvella, nello Statuto seguono le norme che si occupano degli armenti e dei pascoli comuni. Ad esempio, a chi in sorte capitava di tenere il toro della comunità per quell’anno era sollevato dal pagare l’armentaro (l’addetto a portare l’armento, ovvero il bestiame dei villaggi, ai pascoli vicini percorrendo quelle vie che nella toponomastica prendono di solito il nome di via Armentera, Rumentera o simili) . Ovviamente vietato era far transitare per le campagne il bestiame, specificandolo con precisione: “cioè vacche, manzotte, manzotti, cavalli, cavalle, puledri e puledre, asini e asine, muli e mule, porci e porche, capre, pecore e montoni“.
A conclusione della Regola vengono elencate una serie di norme generiche a cui erano tenuti i Regolani, norme che riguardavano l’obbligo di partecipare alle assemblee e al voto, ma soprattutto come fossero tutti tenuti a partecipare ed a osservare con solennità le seguenti feste: San Piero in Chariega (San Pietro in Cattedra), San Piero in Vincoli, Santo Salvatore, San Liberale, San Giorgio, Sant’Eustachio, San Moro, San Felice del mese di maggio, San Giovita, San Tommaso del mese di dicembre, San Vito, San Zeno e San Leonardo. Chi non le osservava, o peggio veniva trovato “dagli salteri a lavorar per guadagno dal levar del sole infino al tramonto” anzichè partecipare alle suddette feste veniva condannato a una multa di ben soldi dieci.