Dicono che il Signore della Natura, dopo aver creato la Schiara e la Gusela del Vescovà e dopo essersi giustamente riposato, abbia pensato di completare la sua opera collocando, al fianco di quella splendida valle oggi conosciuta come Val Belluna, altre catene di montagne che gli uomini avrebbero chiamato Monti del Sole ed Alpi Feltrine.
I Monti del Sole, forse per le loro dimensioni ridotte, per la loro superficie limitata, per le quote piuttosto basse, gli erano riusciti subito bene e non gli avrebbero dato adito a ripensamenti. Quel tanto di apparente confusione, quel mescolarsi di verdi e di rocce, quel selvaggio, gli erano piaciuti e sarebbero piaciuti.
Egli si era poi dato da fare a fissare sul territorio una catena, che si spingeva lungamente verso sud-ovest. Qui la sua creatività aveva potuto materializzarsi in modo assai differente e più completo. Le Vette erano ricche di verdi, ma non si può dire che mancassero le rocce. Esse emergevano dal verde, spesso lo accompagnavano e in alto non raramente si trasformavano in ghiaie bianche sopra forme piramidali. E poi, c’erano le varie Buse che col tempo avrebbero preso i nomi di Busa delle Vette, di Cavaren, di Monsampian.
Più a nord-est la fantasia del Creatore si era invece sbizzarrita nel creare l’ennesima Dolomite. L’avrebbero chiamata Sass de Mura, qualcuno Sass da Mur e intorno vi aveva realizzata tutta una cengia, o meglio una banca rocciosa, tanto essa era larga in certi punti, che presto o meglio tardi, prima dell’avvento dell’alpinismo, i cacciatori avrebbero scoperto, allorché avrebbero preso ad inseguire le loro prede animali con lo schioppo in spalla.
A nord-est il Signore si era proprio dato ben da fare, realizzando a 1700 m un autentico Eden. Un vasto altopiano che l’uomo successivamente avrebbe potuto arricchire con opere del suo lavoro e del suo ingegno. Luogo sospeso sopra la terra, fiancheggiato da un mondo carsico di alta quota, ricco di mughi, di inghiottitoi, di solchi profondi, accompagnato dai verdi, rossi e grigi di una montagna, il Brendol, che si innalza a settentrione, dove le forme dolomitiche sono assenti. Eppure non se ne sente il bisogno. E l’aspro della Valle del Mis, ove si materializza anche il Pizoc con una grande parete di 800 m, sembra proteggere questo fantastico paradiso naturale.
Non che il Creatore fosse insoddisfatto di ciò che aveva realizzato. Ma in mano gli era rimasto ancora un ago di roccia, un obelisco di una quarantina di metri. Cosa farne? Dove metterlo? Già gli era riuscita la collocazione di quella punta avanzata, lungo le creste della Schiara, vicine alle Pale del Balcon. Egli era rimasto particolarmente fiero di quella punta di roccia donata ai bellunesi, comunque a coloro che un giorno avrebbero preso quel nome, e che guardava tutta la Val Belluna. Aveva fatto loro, con la Gusela del Vescovà, davvero un bel regalo.
Ma il Creatore non voleva essere da meno nei confronti dei più lontani feltrini. Si era ben guardato d’intorno, esaminando quella catena che avrebbe preso il nome di Alpi Feltrine. Si era lungamente soffermato sulle Vette, in quella parte più prettamente dolomitica centrale e infine sul Pizoc aspro e marginale.
Quel gingillo per lui così piccolo, persino così difficile da tenere in mano, allorché si trovava sulle Creste di Cimia ed osservava la sua creazione, gli era sfuggito di mano ed egli stesso non si era reso conto dove fosse andato a conficcarsi. Ci sono cose che di tanto in tanto sfuggono all’attenzione anche dei loro creatori. Inizialmente lo aveva cercato, poi non se n’era più curato. Disperso forse tra la vegetazione dei Piani Eterni, forse inghiottito da una forra. Si era persino dimenticato di quella Gusela, finché un giorno di qualche decennio fa, alla fine degli anni 60 del secolo scorso, un alpinista scrittore, Severino Casara, aveva voluto dedicare uno dei suoi libri più belli, “Dolomiti di Feltre”, proprio ai feltrini.
Egli era partito dalle Vette Feltrine, le aveva lungamente attraversate, scovando lungo il percorso bellezze insospettate, sconosciute. Dopo la Busa delle Vette, da lui ribattezzata Busa delle Meraviglie, dopo il Cimonega, il Sass de Mura, era giunto a “scoprire” i Piani Erera e i Piani Eterni.
Non stanco di girovagare, di vedere, di meravigliarsi, quando il tempo aveva ormai minacciato di guastarsi, dopo avere scoperto quell’Eden perduto che porta il nome di Piani Erera, Casara, era andato oltre quella “selva” di vegetazione arbustiva che abbracciava l’altopiano, oltre il Passo di Cimia, scendendo ai Piani di Cimia, scoprendo infine dov’era finito quello strano, incantevole obelisco di roccia che oggi conosciamo come Gusela della Val del Burt, in attesa che qualcuno lo ritrovasse. Proprio dalle Creste di Cimia, un crestone secondario che prende il nome di Cime di Picola e separa la Val Falcina dalla Val del Burt, si staccava verso est. In questa porzione di territorio che fa parte del mondo misterioso del Pizoc, dove l’uomo difficilmente arriva, la natura aveva voluto collocare quel bellissimo, singolare obelisco naturale scivolato dalle mani del Creatore.
Quel gingillo un giorno sarebbe stato anche salito. E i suoi salitori avrebbero anche voluto chiamarlo col nome di un loro amico morto. Ma a noi piace insistere col nome originario: Gusela della Val del Burt. Ancorché la parola “burt” significhi letteralmente brutto, è quanto di meglio si possa immaginare in ambito dolomitico. Quell’etimo si riferisce alla valle che lo raggiunge sul versante settentrionale. Certamente orrida, selvaggia, aspra. Ma quel gioiello non poteva fermarsi in un posto più azzeccato. I regali della natura poi, a chiunque vengano riservati, non debbono mai essere eguali.