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La fornàs de la calzìna

a Trichiana una meraviglia del nostro territorio

La fornàs de la calzìna

a Trichiana una meraviglia del nostro territorio
La fornàs de la calzìna a Trichiana

Nel nostro territorio, in passato, erano presenti molte fornas de la calzìna. Proprio l’abbondanza di pietre calcaree ha fatto sì che lungo quasi tutti i corsi d’acqua del comune venissero costruite delle calchere. Di alcune è possibile ancora vederne i resti, per esempio di quelle che si trovano vicino ai Brent de l’Art in località Calcherola, vicino all’abitato di Sant’Antonio. Altre si possono trovare lungo il torrente Limana e Tarancana tra Nate e Pranolz. Una in particolare che si trova in località Faldine, nei pressi di Nate, qualche anno fa è stata ristrutturata e rimessa in funzione da un gruppo di appassionati volenterosi. Di questo evento è stato realizzato un documentario che ha ripercorso tutte le tappe della fornas, dal trasporto delle pietre e delle fascine, alla costruzione, ai giorni di cottura, fino alla fase di raffreddamento nella busa. Il lavoro, dal titolo “Polvere di Roccia” e realizzato da Michele Rosset, si può trovare presso il bar “Al Monumento” in piazza a Trichiana o contattando la Pro Loco di Trichiana (info@prolocotrichiana.it).
Ma cos’è una Fornas de la calzìna?
È una fornace dove una volta si cucinava la calce. Non immaginatela come un alto forno o come una fucina di Efesto, ma piuttosto come un igloo o una casa per Hobbit.

Questa struttura in pietra, alta un paio di metri, è anche chiamata calchera, appellativo derivato da calcare, l’elemento di cui sono ricche le pietre da calce. La fornas veniva di solito costruita a ridosso di un terrapieno naturale per garantire maggiore stabilità e per agevolare le operazioni di carico e scarico. La vicinanza a un corso d’acqua, con abbondanza di pietra calcarea e di legname, facilitava inoltre il trasporto dei materiali. Un’apertura sul davanti consentiva di inserire la legna e di estrarre braci e ceneri. Solo poche fornaci, le più grandi, ne avevano due.
Per cosa veniva usata la calce?
Innanzitutto per i pavimenti alla veneziana delle ville dei siori e per erigere muri di pietra, mescolata alla sabbia, producendo la malta. In secondo luogo per imbiancare, impiego tuttora in uso. In passato veniva però mescolata con del sapone fatto in casa o con del siero del latte per far scorrere il pennello, altrimenti il risultato sarebbe stato un muro tutto a righe. La calce veniva anche aggiunta al verderame affinché restasse meglio attaccato alle foglie. Infine la polvere di calzìna veniva usata nelle stalle per evitare le infezioni.

Oggi la calce preparata secondo il metodo di cottura tradizionale è molto preziosa e trova un’importate applicazione nei lavori di restauro di opere d’arte e di edifici antichi. La storia millenaria delle fornaci per la calce (le datazioni fanno risalire le prime a ca. 4.000 anni fa) è andata a perdersi solo negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’60, quando abbiamo cominciato a trovare la calce già pronta all’uso, in comodi sacchi. Ma c’è ancora qualcuno che nella sua infanzia ha visto le fornas in funzione e ricorda l’inconfondibile profumo che i sassi emanavano quando erano cotti e i magici colori delle fiamme, che trasformavano il colore sassi da bianco a rosso incandescenti.

Ricorda i giorni di lavoro per preparare la fornace. L’allestimento era un lavoro certosino ma all’epoca le giornate “le costea poc”. Si iniziava andando al fiume a raccogliere le pietre, sotto l’attenta supervisione del maestro fornaciaio, il cui lavoro ben retribuito era molto ambito. Solo lui, e pochi altri, sapevano riconoscere le pietre giuste, che non sarebbero scoppiate né si sarebbero disfatte con l’elevato calore.

Poi bisognava mettere insieme la legna e i fassin (fascine), ovvero ramaglia non pregiata, come cespugli, ginepri o rovi (i roai) legati con la saca (un ramoscello di nocciolo sapientemente manipolato e reso molle e duttile per essere usato come un laccio), rigorosamente non di pino, perché la resina inquinava i sassi. Ad alimentare la fornace non dovevano essere le braci, bensì fiamme continue che salivano in alto tra le intercapedini delle pietre, avvolgendole e riscaldandole uniformemente. Occorrevano moltissime fascine e una temperatura di almeno 800° C.

Anche i nostri contadini, al pari di Brunelleschi, erano in grado di costruire cupole, di dimensioni ovviamente ridotte, con la volta fatta di sassi più o meno squadrati e a secco, senza l’aiuto del cemento, perché la fornas doveva respirare. A volte la fornace veniva costruita su un’impalcatura di legno (centina) che di seguito sarebbe bruciata.
La calchera, una volta avviata, doveva continuare a funzionare per più giorni, almeno quattro, a volte addirittura otto. Per questo andava sorvegliata giorno e notte per tutto il periodo della cottura; bisognava continuamente controllare il fuoco che non doveva essere né troppo caldo, né troppo freddo, finché la calce non fosse stata pronta, emanando quell’indimenticabile profumo che segnalava la fine della cottura. Era questo l’unico modo per capire se la calce era pronta: niente termometri, niente rilevatori né sensori, ma solo l’esperienza.

E dopo?
La calce cotta doveva essere fatta raffreddare, per almeno due o tre giorni. La calce viva, estratta dalla fornace, veniva messa nella busa de la calzìna, un buco nel terreno scavato vicino alle abitazioni, relativamente lontane dalla fornas. A Trichiana per esempio c’era una fornace comunale (dove adesso ci sono le scuole medie) alla quale tutti potevano andare per prendere la calce che poi portavano nella propria busa.

Ma cosa si intende con calce viva?
A questo punto del processo la calce cotta si presenta nella forma di sassi, cotti e bollenti, sicuramente poco pratici da utilizzare. Una volta messa nella busa, la calce viva veniva bagnata con l’acqua, che per reazione, a contatto con la pietra letteralmente bolliva e scioglieva la calce, riducendola ad una specie di crema.

Oltre alla crema di calce, si poteva ottenere anche la polvere di calzina sbriciolando i sassi cotti.

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