Tutti in paese sapevano di quel maschio che non aveva più di sei anni di vita ma al quale la forte muscolatura, la lucentezza del mantello e la maestosità del palco avevano fatto meritare il nome di Jèrpa. Difficile vederlo con altri maschi, e quelle poche volte che lo si vedeva in compagnia, era nel periodo degli amori, attorniato da bellissimi esemplari di capre. Sul suo trofeo avevano scommesso decine di cacciatori, con l’arroganza e la presunzione di divenire i domatori ultimi di quella imperiosa forza della natura.
Nelle lunghe e fredde serate d’inverno non c’era ritrovo di cacciatori ove non si raccontasse delle vicende legate a Jèrpa e nessuno dei convenuti, carburati e accesi dai fumi della grappa e del vino, che non si fosse almeno una volta vantato di aver avvistato o di aver sparato a quel portento della natura. Si diceva che fra le carni dell’animale fosse custodita qualche palla di ferro sparata dai tremendi fucili dei cacciatori, ma neppure il micidiale strumento di morte aveva fermato il suo fiero correre. In quel periodo di freddo, gelo e miseria, il vecchio maschio presentava un fantastico pennacchio ispido e nero come il “carbon”, ma con le punte dei peli del dorso di un bianco pari alla luce.
Sul candido manto immacolato di neve vergine, si stagliava nel freddo pungente di quelle prime luci dell’alba, quando il rosa della dolomia del Passo Forca e della Bareta del Prete sembravano benedire Dio per tanta maestà e splendore, tanto quelle vertiginose balze parevano essere altare rivolto al Creatore. Il fiato carico di umidità usciva diritto dal tartufo nero e, non appena si scontrava con la gelida aria di quel fare giorno, allora diveniva più spesso e rotondo. Si attorcigliava attorno al muso di Jèrpa per staccarsi dall’irsuto pelo, formando delle bolle pari a quelle dell’incenso che, bruciato, esce dal turibolo e si perde nella chiesa.
Quale cattedrale più maestosa e divina se non quelle pale ricamate e coperte dalla neve, dove la natura si fa preghiera e dove Dio manifesta l’onnipotenza nella più nobile e alta preghiera qual è il creato? Jèrpa stava pregando, e la sua preghiera saliva a Dio proprio nel danzare rotondo di quell’ansimare, sebbene ignaro del prossimo destino. Il gracchiare delle zurle squarciava il silenzio maestoso di quel divenire giorno, perdendosi negli odori e sapori che solo il freddo pungente e l’inebriante aroma delle mille essenze disperse nell’aria sapevano esprimere…