Ogni tanto succede, di sentirne parlare. Capanna Margherita, 4.554 metri sul Monte Rosa, regina di vette e scalate da fotografia. Una, di foto, l’ha fatta anche lui il giorno che in cima ci è arrivato davvero, lo scorso 16 luglio. Ed è una foto particolare, senza panorama dietro, senza primi piani celebrativi, solo con un dito che punta alla parete del rifugio: un dito che ci riporta al puntino rosso dell’adesivo dell’Aido di Belluno attaccato alla parete marrone tra tanti altri. Solo che non è adesivo come gli altri: racconta, in pochi centimetri di rosso, di un’avventura iniziata per Mirko Dalle Mulle da ragazzo, all’epoca del primo trapianto, poi di una lunga vita normale, di una passione per la musica, di un lavoro in ufficio, di una moglie, poi di dialisi, di un nuovo trapianto, e di un ricordo di un amico che a Capanna Margherita non ha fatto in tempo ad arrivare.
Mirko, come ti è venuta l’idea a pochi mesi dal secondo trapianto di rene? Non c’era qualcosa di più facile?
«In realtà a volte non decidiamo noi le nostre storie. Io avevo un buon amico, ammalato di fibrosi cistica e trapiantato, che era un ottimo alpinista. Marco Menegus si chiamava, e non ha mai lasciato che la sua malattia diventasse un ostacolo alla sua passione per la montagna. Aveva preparato a lungo questa scalata, e doverla sospendere a 200 metri dalla cima fu per lui un arrivederci, la montagna lo attendeva ancora. Marco se n’è andato prima di poterla concludere quella scalata, e io assieme ad amici comuni l’ho fatta per lui, per la nostra amicizia, e per dimostrare a me stesso che ce la potevo fare».
Come ti sei preparato per un’impresa così impegnativa?
«In realtà a febbraio ho fatto una piccola salita pomeridiana sul Monte San Mauro, sopra Feltre e sono arrivato distrutto! Eppure era proprio un’escursione da principianti! Mi son detto: “ma dove vuoi arrivare, caro mio, renditi conto che non ce la puoi fare: il Monte Rosa non è da tutti, accontentati delle nostre vette!”. Invece poi con la costanza e l’allenamento quotidiano, la compagnia dei miei amici trapiantati che volevano condividere con me la sfida e il costante aiuto e monitoraggio del Cerism di Rovereto (centro di medicina e ricerca sport alta montagna) ho cominciato a crederci».
Allenamenti di che tipo?
«Beh, quelli che facevamo tutti noi a casa durante il lock down: bicicletta, corpo libero, pesi. Poi abbiamo cominciato le sedute in camera iperbarica a Rovereto e le uscite di acclimatamento sopra i 3.000 metri e 4000 poi; e piano piano tutto tornava al suo posto: i parametri vitali erano normali, respiravo bene, il mio fisico rispondeva. L’asticella si stava alzando».
È stata un’ascensione tranquilla?
«Diciamo di sì, anche se la montagna non va mai sottovalutata. Le Alpi sono fredde, quando siamo partiti dal Gnifetti alle 4 di mattina c’erano -8 gradi, le mie compagne di cordata sono dovute tornare indietro per problemi di ipotermia. Noi siamo saliti tra raffiche di vento a 60 km orari e nuvoloni. In meno di 4 ore però siamo arrivati in cima, accompagnati da un panorama che non si può descrivere».
Che cosa hai pensato? Sei stato fiero di esserci arrivato?
«No, ho pensato a Marco, non fosse stato per lui non avrei mai neanche iniziato a immaginarla questa salita. Con la preparazione giusta, senza fretta e con buoni amici con cui condividere il cammino non è stato per me più difficile che per chiunque altro, credo. L’abbiamo presa con più serietà, questo sì, rispettando scrupolosamente i protocolli e i ritmi di allenamento dei medici e delle guide, prendendoci il tempo per acclimatarci gradualmente alle altezze e all’ossigeno rarefatto. Per il resto, non mi sono sentito un eroe perché ho con me due reni, dono di qualcuno che non conoscerò mai, ma che porto sempre con me, con la viva convinzione che in ogni posto che vado, sia in grado di far loro vedere posti nuovi!».