Di solito scorrono ed evaporano, le acque, per poi tornare in Terra secondo il giro di giostra “vapore-precipitazioni-fiumi-mare”, ma in Valbelluna, e più a monte ancora, accade che le acque spariscono, inghiottite in quel colabrodo a cui è ridotta la nostra montagna dai tempi in cui l’idroelettrico fu visto come la soluzione per un’energia pulita, oltre che una ghiotta occasione per riempire portafogli.
Sulla carta la situazione è stata migliorata dalle promesse di “restituzione a valle” e di “minimo deflusso vitale”, degno della cartella clinica di un paziente all’ultimo stadio. All’inizio l’uomo si accompagnava al fiume come a un cavallo difficilmente domabile, poi prese coraggio provando ad addolcire le sue rive, smussandone i meandri, alzando paratie e, convinto di averlo domato, cominciò a farlo lavorare per lui: energia idroelettrica a volontà e secchi d’acqua per tutti i campi coltivabili della pianura! Il tutto perdendo la memoria del territorio e il senso della misura. La Natura lascia fare ma quando non ne può più esplode in tutta la sua potenza: ed eccoci allarmati lungo gli argini dei fiumi a misurare il livello delle acque, alla sala-comando della diga che ha amputato il normale corso del torrente, nei centri di previsione meteo per incrociare calcoli e dati statistici.
Gamberi e trote intanto continuano a cercare le fresche acque ossigenate… chissà se sanno che l’agonia di un fiume è anche l’agonia dei suoi animali: quando un pesce piange, nessuno si accorge delle sue lacrime.