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Il lavatoio di Giaon a Limana

La “lissia” e lo schiamazzo dei bimbi

Il lavatoio di Giaon a Limana

La “lissia” e lo schiamazzo dei bimbi

“I panni sporchi si lavano in casa” diceva un vecchio adagio, ma non è sempre stato così! Elda, la simpatica e sempre disponibile capofrazione di Giaon, mi invita a visitare il vecchio lavatoio, da poco ripulito e riempito d’acqua da alcuni volonterosi paesani.

La giornata calda e colorata di sole invita a passeggiare; così ci avviamo e vengo a conoscere i luoghi più segreti e suggestivi come la Burela, una viuzza stretta dove le case si fronteggiano vicine.

Dopo il piccolo centro del paese sento il ciangottare di una fontana, pare una voce misteriosa e ciarliera che borbotta. La raggiungiamo: l’acqua sgorga limpida e fresca sprizzando da un tubo, mentre sul fondo granelli di sabbia turbinano impazziti. Elda mi racconta che una delle due vasche, la più antica in pietra di Castellavazzo, è stata riscoperta quando si sono svolti i lavori di rifacimento del muretto lungo la strada.

Dall’altra parte della carreggiata trovo l’antico lavatoio dove generazioni di donne hanno lavato e sciacquato i panni. Le vasche sono due, nella più piccola si lavavano i “panesei” dei bambini, nella più grande si sciacquava la biancheria dopo la “lissia”. Mariella Trevisson mi racconta che, quando era piccola, il giorno destinato al bucato era per i bambini una festa. Si cominciava dal giorno prima: le donne lavavano la vasca liberandola dal “lisp”, alghe verdi filamentose che si formavano nell’acqua, soprattutto d’estate. Nello stesso giorno si preparava la “lissia”, il detersivo e lo sbiancante di un tempo: la biancheria bianca veniva lavata con il sapone fatto in casa e poi pressata con ordine all’interno di una tinozza di legno. Nel frattempo in un pentolone si facevano bollire per due o tre ore acqua e cenere setacciata di legna.
A bollitura ultimata la soluzione veniva versata nella tinozza decantata, raffreddata e filtrata con un panno di cotone o canapa.
La biancheria immersa in quest’acqua separata dalla cenere veniva lasciata riposare per una notte. Il giorno dopo i panni venivano sciacquati nel lavatoio e, ben detersi e imbiancati, conservavano un buon profumo di bucato fresco.

La parte liquida della lissia, il “lissivaz”, veniva riutilizzata per il bucato “di colore”, mentre il residuo solido, costituito dalla cenere bollita che conservava un debole potere detergente, veniva usata per lavare i piatti, sgrassare i tegami o altro.

L’acqua è chiara e riempita di cielo. Sembra ancora di sentire lo schiamazzo dei bimbi che si divertono a schizzare l’acqua, lo schiocco dei panni zuppi sbattuti sulla pietra, il chiacchiericcio, le risate e i pettegolezzi delle donne che, nonostante le fatiche, trovavano sempre di che sorridere. Questi sono i luoghi della nostra storia che pazientemente restano lì e attendono che qualcuno si ricordi di loro e li vada a riscoprire.

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