Un tempo “l’avventura” era molto diversa da oggi perché era umana, così come il modo di raccontarla. Non era infarcita di zombie, di alieni, combattimenti contro scheletri e quant’altro, ma condotta da uomini veri, da imitare, che si battevano con altri uomini (i “cattivi”) dotati a loro volta di umanità e di codici d’onore che inducevano a valutare la realtà della vita da un altro punto visuale, che poteva piacere o non piacere, ma era un’alternativa possibile, il più delle volte affascinante. Già da giovani si navigava verso l’isola del Tesoro o a caccia di Moby Dick o ancora ci si identificava ne “I figli del Capitano Grant”.
Come avventura c’era in particolare (per la disperazione del politicamente corretto) quella coloniale che ci accompagnava nei “Ludi Africani” di Ernst Jünger, nella “Cittadella” di Saint-Exupery e giù a seguire nelle memorie di tutti i “guerriglieri del mal d’Africa” alla maniera della leggendaria “banda Bastiani” fatta di irregolari somali, di ascari eritrei e di sciumbasci etiopi. L’offerta poi era molto variegata: sulle sabbie del Maghreb ci si poteva elevare alla visione di Dio come ne “Il cammino del centurione” di Psichiari oppure addentrarsi nel fantapolitico “Gran Murzuk” di De Diesbach.
Il cinema ci metteva del suo con gli indimenticabili Gary Cooper di “Beau Geste”, il Jean Gabin del “Porto delle nebbie” e de “La bandera”. Erano degli eroi da imitare con struggenti storie piene di etica e di pathos, non piene dei supereroi aridi e nevrotici impossibili da imitare, ma popolate di eroi privi di superpoteri e pieni di umanità.
Era l’epoca in cui proliferavano poi gli spiriti liberi geneticamente predisposti, ovvero quelli che avevano l’avventura nel sangue, e una volta che la scoprivano vi si immedesimavano e valutavano la possibilità di viverla quotidianamente, aspettando il momento giusto per incanalarvisi, verso una realtà separata lontana dall’insoddisfacente tran tran quotidiano.
Per un francese che sognava l’avventura, di famiglia italiana immigrata – Albert il suo nome – nei primi anni ’50 la vita militare era un percorso obbligato, specialmente se immersa coi paracadutisti nella guerra d’Indocina (che dopo diventerà Vietnam ma ormai pochi se lo ricordano). E lì andò, era lì che vedeva realizzarsi i suoi sogni.
Ma l’ansia di vivere lo divorava anche lontano dalla linea del fuoco e gli episodi anche cruenti che volle vivere si susseguirono finché uno di questi lo bruciò, alimentato da un oscuro episodio successo in un postribolo di Hanoi.
Privo dell’onore e della gloria, ma anche dello stipendio dell’esercito, l’Avventuriero sognò ancora una vita spericolata e fu così che, scontento di un futuro da fotografo, cominciò a pensare ad una banca, all’interno della quale i soldi notoriamente non mancano.
Stimolato dalla pubblicità che campava su tutti i muri di Francia che ne magnificava la sicurezza, lo spirito inquieto scelse il suo obiettivo nella banca della Societé Generale di Nizza ed anche il weekend più adatto, quello del 17-19 luglio 1976 quando, assieme ad altri volonterosi suoi simili, dette il meglio di se stesso. Alla chiusura di venerdì pomeriggio, secondo il piano perfetto, i compagni si introdussero nelle fogne per arrivare al muro del caveau che venne abbattuto e, quando furono dentro, vuotarono cassette di sicurezza (quelle di cui neanche la banca conosceva il contenuto) fino al lunedì mattina.
Con un’indimenticabile chicca finale, ovvero lasciando scritto sul muro “senza odio, senza violenza, senza armi” quale benvenuto al primo funzionario che vi si fosse introdotto alla riapertura.
L’impatto emotivo sull’opinione pubblica francese fu enorme, si scatenò subito la caccia con “il nostro” ben presto nel mirino.
Nella mancanza di certezze sulla sua responsabilità venne fermato ed interrogato per molto tempo. Ma il clima era diverso da oggi, era il tempo in cui nei teatri si rappresentava “L’opera da tre soldi” di Brecht, quello stesso che istruiva il popolo dicendo che “rubare in un banca non è una cosa bella, ma il vero crimine è aprire e lavorare per una banca”, concetto lontanissimo dalla odierna metanoia coltivata dalla spocchiosa “intellighenzia” radical-chic.
Ogni giorno sotto la questura c’era una folla manifestante in favore dell’Avventuriero e contro gli inquirenti, folla fatta di operai e di impiegati, e non da centri sociali. Il giorno che si dovette scendere per calmare i più facinorosi, il nostro venne lasciato momentaneamente solo in ufficio e lui saltò dalla finestra e… non lo videro mai più.
In latitanza conobbe una bellissima feltrina, l’amore della sua vita, che lo portò a vivere da qualche parte in Valbelluna. Da latitante si concesse viaggi a Milano, un matrimonio in Senegal e la frequentazione dei bar in Piazza Martiri a Belluno per più di un decennio.
Espresse un ultimo desiderio dopo un’infausta diagnosi medica che lo condannava: “In prigione mai più!”. E quando fu il momento del trapasso (le Feltrine sono donne formidabili) venne esaudito: sistemato dentro un camper, saltando le frontiere, con l’aiuto di lei, solo allora fece ritorno in Francia.
Scientemente non ho voluto alimentare morbose curiosità, omettendo luoghi e riferimenti, ma su di lui e sulla sua vita spericolata sono stati scritti tre libri, dai quali si produssero anche due film, “Le fogne del Paradiso” e “Senza armi, senza odio, senza violenza” e, se proprio non sapete resistere, su Google potete trovare centinaia di articoli a lui dedicati, completi anche di tante versioni simili ma anche discordanti tra di loro. Insomma troverete tutto ed il contrario di tutto.
Riposa in pace Ultimo Avventuriero. Non ci siamo mai conosciuti, ma quando mi passi per la mente sappi che mi scappa sempre un sorriso complice.