La fine della guerra
Santa Giustina fu liberata l’1, Sedico e Bribano (passando anche coi cavalli il Cordevole) il 2, ma Sospirolo, Mas e Peron soltanto il 3 novembre in quanto i nostri soldati furono rallentati nella loro avanzata dalle combattive retroguardie austroungariche (formate in prevalenza da bosniaci) trinceratesi con mitragliatrici e cannoni tra Gron, Vedana, le Masiere e Orzes a presidio della strada per Agordo, strategica per la ritirata delle loro truppe; così dalla pedemontana sospirolese sparavano verso il Cordevole, uccidendo anche una bambina e un uomo di Roe.
Il ritorno dei profughi
Nell’approssimarsi degli austro-tedeschi dopo Caporetto (novembre 1917), i benestanti, salvo qualche rara eccezione, fuggirono anche dalle nostre zone abbandonando i loro palazzi e ville (talora lasciati in custodia a qualche residente rimasto). Se ne andò anche il nostro sindaco che però abitava stabilmente a Belluno. Rimasero a Sedico ad aiutare la gente, oltre al sacerdote gesuita padre Cenere, anche gran parte dei consiglieri comunali (gli altri erano stati chiamati alle armi) tra i quali va segnalato il vicesindaco Augusto Pasa. Inoltre, grazie al segretario comunale e agli impiegati del municipio, pure rimasti al loro posto, fu possibile salvare il nostro archivio comunale. A Libano rimase il parroco, don Giuseppe Moreschi, che, su incarico delle autorità dello Stato, teneva il “Registro dei Parrocchiani chiamati alle armi” e durante l’occupazione aveva rapporti con i comandanti nemici, di stanza in paese, anche per la distribuzione dei pochi viveri. Dopo la guerra, probabilmente per questo e altri servigi resi alla sua gente, venne insignito del titolo di cavaliere.
Molti di quei benestanti, al loro ritorno, incolparono dei danneggiamenti e dei furti nelle loro dimore padronali la gente che era rimasta a patire la fame e i soprusi degli occupanti. Si creò un astio vicendevole che non si estinse mai e il cui ricordo durò a lungo. Anche lo scrivente rammenta l’amarezza provata dai nonni materni per le ingiuste e umilianti accuse loro rivolte dai vicini che, andati profughi, al ritorno avevano trovato il palazzo di residenza a San Gervasio (Belluno) saccheggiato e depredato.
La situazione a Sedico
La descrive bene mons. Luigi Fiori qui arrivato stabilmente in gennaio del 1919 dopo esser stato congedato dal servizio militare (in guerra era soldato di sanità). “La Parrocchia di Sedico aveva ancora una certa bardatura di guerra: baracche a destra e a sinistra, bombe e granate ad ogni passo, le case piene di militari addetti in parte agli autotrasporti che da Bribano, ultimo scalo ferroviario, in lunghe colonne andavano a rifornire la Provincia di tutto quello che mancava; gli altri occupati nei lavori del Genio. Il campanile era silenzioso ed una povera campanella dava il segnale delle feste e delle Sacre Funzioni. In quel tempo era in pieno sviluppo anche la smobilitazione dell’esercito ed i Reduci ritornavano a frotte nelle loro famiglie. Ho trovato anche la «spagnola» che in tre mesi aveva fatto un centinaio di vittime, ma che fortunatamente era già in decrescenza”.
Vedove, orfani, mutilati, invalidi di guerra
Ufficialmente i caduti del nostro comune furono 159 comprendenti anche quelli deceduti, per conseguenze della guerra, successivamente alla fine delle ostilità. Pure nel comune di Sedico fu costituita una sezione dell’Associazione delle Madri e Vedove dei Caduti: a febbraio del 1920 erano iscritte 40 madri e 29 vedove. Queste erano le finalità dell’Associazione: 1) onorare e suffragare i Caduti; 2) assistere e aiutare le loro famiglie; 3) curare il bene degli Orfani di guerra. Entrarono nell’associazione, come aderenti, anche 12 sorelle di caduti. I mutilati si riconoscevano subito dalle protesi a gambe e braccia; i più sfortunati erano rimasti ciechi (uno dopo il congedo venne ad abitare a Prapavei ed era molto conosciuto; di lui esistono delle foto scattate da Domenico Canzan).
Il ritorno scaglionato dei soldati
Gran parte dei soldati che erano stati prigionieri di guerra in Austria-Ungheria e Germania ritornarono in modo avventuroso in Italia ricevendo dai comandi militari un’accoglienza incredibilmente vergognosa; furono internati in speciali campi di concentramento e lì interrogati per conoscere i particolari della loro cattura: per il nostro Stato Maggiore erano tutti dei possibili disertori che magari si erano arresi senza combattere per aver salva la vita. Ero lo stesso Stato Maggiore che non aveva provveduto all’invio di pacchi viveri causando la morte per fame di tanti nostri soldati prigionieri del nemico. La smobilitazione dei soldati in armi avvenne in modo scaglionato per più motivi. Se congedati tutti assieme, ci sarebbe stata in giro una massa di disoccupati che, in caso di manifestazioni di protesta, sapeva usare le armi; c’era perciò il bisogno di mantenere l’ordine pubblico, qualora ci fossero state delle sollevazioni popolari (il re aveva promesso lavoro per tutti quando venivano mandati all’assalto); interi reparti furono inviati a presidiare la Libia (conquistata anni prima e mai pacificata) e l’Albania, dove già dal 1914 avevamo occupato la città di Valona e dove gli albanesi, costituiti in bande, continuavano ad attaccare le nostre truppe demotivate e colpite dalla malaria. Entro dicembre del 1918 furono congedati i più anziani (classi dal 1874 al 1884) per un totale di quasi 1 milione e 200 mila uomini e altri 160.000 delle restanti classi; tra gennaio e marzo 1919 fu la volta delle classi dal 1885 al 1887 e del 1900: in tutto 500.000 uomini; in agosto e settembre 1919 furono smobilitate altre sei classi fino a quella 1884. Alla fine restavano sotto le armi 600.000 uomini. La smobilitazione coinvolse ben tre milioni e mezzo di militari. All’atto del congedo veniva dato a ciascuno un pacco di vestiario e una piccola somma rapportata agli anni trascorsi in guerra: variava dalle 100 alle 250 lire di allora (1 kg. di zucchero costava £. 6.50, 1 kg. di riso £. 1.22 e la pasta al kg. £. 1.10).
La febbre spagnola
Partita dall’Estremo Oriente, arrivò negli Stati Uniti e da lì alle trincee europee. Fu così chiamata perché l’unica a parlarne fu la stampa spagnola non soggetta a censura, come invece le nazioni belligeranti. Si calcola che sia stata la più grande epidemia mondiale della storia. Favorita dalla guerra (fame e condizioni di vita nelle trincee), colpì un terzo della popolazione mondiale (sia soldati che civili). In Europa si calcola ci siano stati 6 milioni di morti; in Italia, su 36 milioni di persone, ci furono almeno 375.000 vittime (in gran parte militari e popolazioni invase del Nordest); in provincia di Belluno i morti (molti i bambini) furono 10.500 su 203.043 abitanti. Tra questi, 4 bambini che abitavano nei pressi di Landris (nella castèla) e i due fratelli Roni di Peron morti nel 1918 pochi giorni dopo la liberazione, avvenuta in quel paese il 3 novembre: Arone di 13 anni il 19 di quel mese e la sorella Adele di 15 il 27. Eroico fu il comportamento di tanti familiari che, per assistere i congiunti, furono a loro volta contagiati. La spagnola imperversò dall’estate del 1918 ai primi mesi del 1919.
Il progresso tecnologico
La guerra fece compiere un grande balzo in avanti all’industria e di conseguenza anche ai mezzi di trasporto. Ne approfittarono i Buzzatti di Bribano per avviare i servizi di trasporto passeggeri e postale con le prime traballanti corriere (Fiat 18P e BL-R residuati di guerra) dotate di panche e gomme rigide. Furono organizzate regolari corse giornaliere nel territorio agordino e nella Destra Piave a collegare tra loro i paesi tra Belluno e Feltre. A tal fine nascevano gli Autoservizi Buzzatti.
Senza campane
Vennero frantumate nel 1918 con le mazze dagli austriaci, per realizzarne cannoni col bronzo, e i pezzi gettati dal campanile. Coi frammenti, raccolti a Sedico furtivamente dai ragazzi, venne fusa una campana su iniziativa di don Luigi Fiori nel 1919: issata sul campanile, sarà l’unica (assieme a una campanella) a chiamare i fedeli fino al 1922. Anche a Libano furono asportate le campane.