Pubblichiamo l’introduzione e un breve estratto della piccola dispensa di appunti sullo studio dell’ambiente, realizzata negli anni 50 per i maestri che dovevano insegnare a ragazzi che non solo parlavano quasi solamente il dialetto, ma pensavano, desideravano, amavano – vivevano, insomma – in dialetto, almeno quando iniziavano le lezioni sui banchi della scuola elementare.
Il titolo è “Dialetto come ambiente” ed è stata redatta dal maestro Alceo Dalle Mule di Santa Giustina. In essa è evidenziata, con esempi e parole semplici, la differenza tra dialetto e lingua italiana. L’obiettivo sotteso a questa pubblicazione è condividere con i lettori il fatto che il dialetto è una lingua a tutti gli effetti, pur povera, ma dotata di proprie regole, radicate fin dall’infanzia, che ognuno di noi applicava senza preoccuparsene. Usiamo il tempo passato perché crediamo non sia più così! Chissà che questa piccola dispensa non possa tornare utile per riportare l’insegnamento nelle scuole e per far riscoprire ai giovani questa lingua delle nostre tradizioni e della nostra vita (passata e futura).
Questi appunti sullo studio dell’ambiente, che non possono avere nessuna pretesa, potrebbero, semmai, indicare una strada insolita per effettuarlo. La categoria più universale e più comprensiva in tale studio dovrebbe proprio essere quella che parte dal “dialetto”. Questo, però, non inteso solo come fatto glottologico o linguistico, ma visto piuttosto come atteggiamento integrale del ragazzo: il ragazzo non solo parla il dialetto, ma pensa, desidera, ama, vive insomma in dialetto, almeno quando entra nella scuola elementare. Pensare di fargli un cervello, un volto nuovo, senza partire da quello che ha, è cosa possibile, ma finiremmo col costruire dall’esterno, col fargli una maschera, forse anche piacevole, ma senza tratti umani. “O quanta species – direbbe Fedro, ma – cerebrum non habet!”
Se invece che dialetto noi dicessimo “dialettalità”, la cosa sarebbe più comprensibile. Forse i programmi direbbero “mondo concreto del fanciullo”. Ma questo mondo concreto non può escludere il dialetto, inteso in questa accezione integrale, pena una disumanizzazione dell’insegnamento. Sarebbe come cominciare a parlare al ragazzo di H2O invece che di acqua. Una mamma mi ha detto a una riunione dei genitori a proposito di queste ricerche: “Maestro, lu con quele cose vece al li fa sempre vardar indrio. Al li fae vardar avanti, inveze!”. Ho allora pensato che anche le piante, tutte, vanno in giù prima di andare in su, e che tutte le mamme fanno “vardar indrio” ai figli e, se così non fosse, i figli non si sentirebbero neppure legati (amorosamente) a quella famiglia. E le madri ricordano con nostalgia quando i figlioletti parlavano “petel”. Tutte poi han dato “strucci” e “basi” ad ogni parola storpiata, non sberlette sulle mani perché dicevano castronerie. Si immagini cosa sarebbe successo se lo avessero fatto! A noi, invece, succede di farlo, forse con frequenza.
Poi ci arrabbiamo desolatissimi, perché “non capiscono”: si ostinano a scriver male, a far montagne di errori, a rifiutare lo studio, a disturbare e a sognare vacanze.
Non ci è mai venuto il dubbio che quelli si difendano da una specie di violenza? Che si difendano da noi che vogliamo far loro un naso, gli occhi, le orecchie come piacciono a noi e non far loro sviluppare quelli che hanno?
Non è da pensare che se non avessero conoscenza sarebbero loro a dire: “Quel maestro là no l capìs gnint!”.
Non certo che si debba partire dal dialetto per restarci. Si parte dal dialetto per arrivare alla “lingua”. E “lingua” qui non significa solo “lingua”. Significa il mondo della “scienza” o meglio del sapere.
Non un passaggio dalla culla ad un letto grande, ma dalla culla alla casa tutta, e oltre. Passare dal “staol” alla stalla modello; dalla “cusina” alla Salvarani; dalla “stua” al soggiorno; dal “cortivo” al giardino; dal “caret” all’automobile; dalle “galoze” alle scarpe; dal “porzel” al salumificio; dal “caselo” alla latterie; e infine dalla “bona creanza” alla educazione.
È vero che quel dialetto che è accennato in queste note non esiste quasi più. Ma son cambiate le parole perché è cambiata la vita: oggi c’è dialettalità nuova. Quella vecchia saremo noi gli ultimi a ricordarla, se non la facciamo conoscere a chi vien dopo di noi. Anche se ieri il ragazzo a scuola diceva: “Maestra, me ocore!” e oggi invece chiede: “Signora, posso uscire?” il bisogno è sempre lo stesso. In fondo si tratta di liberare il ragazzo dalle ristrettezze del dialetto per avviarlo ad una vita più libera, più piena e completa. Si provi a cercare nel nostro dialetto tutta la fraseologia che riguarda la Religione, la Storia, la Geografia, le Scienze e si vedrà entro quali angustie espressive è costretta la vita affettiva e conoscitiva dalla nostra gente: poche parole per dir tutto che finiscono poi per dir niente o poco. Si diceva una volta: “Quel là al é studià. Al é un che sa al fato soo”. Qui è forse il punto di arrivo: “Saer al fato soo”.
E scuseme la ciacerada!