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Il colle del folklore

I segni di una comunità

Il colle del folklore

I segni di una comunità

La piazza è per eccellenza un luogo di ritrovo. Su di essa si affacciano gli edifici del potere a cui si affiancano i centri dei principali servizi. Vi si svolgono i mercati e le cerimonie solenni, vi si può sostare e persino passeggiare. Ma che dire di un luogo il cui centro si chiama Pian de le Feste? Il nome rimanda certo a momenti lieti in cui i frazionisti si incontrano, la gente accorre, le contrade si sfidano, e i convenuti osservano divertiti l’esito di sfide pacifiche, ma molto agguerrite. Nulla di eccezionale quindi se, proprio grazie al Pian de le Feste, nascono e si organizzano, intorno alla piazza, i gruppi che animano la comunità, né potrà apparire fuori luogo se tra i pensieri dei suoi abitanti albergano sogni di autogoverno e di autonomia nei confronti della città vicina.

Gli anziani ce l’hanno insegnato con la vita, tutta spesa sui versanti del colle, che il lavoro premia e il sacrificio paga. Così prima che il loro insegnamento si disperda in mille rivoli, sparsi per il mondo, meglio raccoglierne i segreti, custoditi nelle tradizioni, nelle musiche e nel folklore locale. Nei colori del costume popolare, nel paziente intreccio dei capelli delle dame, nelle cuciture dei loro umili calzari, accanto al prezioso lavoro di abili artigiani si scoprono i segni di una comunità. Castion non è un castello, un mastio, un rifugio fortificato, ma un pianoro aperto, un luogo adatto agli incontri, dove ancor oggi la gente si ritrova per vivere attraverso le feste popolari fatti antichi, riproposti con rinnovata virtù. Nella fierezza del portamento, nella genuinità delle espressioni, nella danza, nei canti, nel ballo rivive la genuinità del passato e si creano i valori del futuro. L’abitudine al riunirsi e al raccontarsi aiuta la ricerca del bene comune e risponde al bisogno di appartenersi ed appartenere interagendo consapevolmente nella propria società.

Là dove la valle si allarga a respirare serena, tra le imponenti cime delle Prealpi, l’altipiano del Nevegal e il Col Visentin, alla confluenza del torrente Ardo con il fiume Piave, nasce Belluno. Oltre la cinta muraria, si estende la campagna, elevandosi dolcemente verso il Castionese, il Colle del Nevegal, tra campi coltivati, borghi tradizionali, piste da sci e rifugi tra i boschi. In questo ambiente, è nato nel 1963 il “Gruppo Folcloristico Nevegal”, quale spontanea e genuina espressione dell’animo della gente di montagna attraverso la danza nella fedele riproposta di momenti di vita contadina di fine Ottocento.

Il Gruppo ricerca usi, costumi, musiche e balli quali custodi di ricordi e momenti vissuti nelle case di campagna oppure portati e raccontati dagli emigranti partiti in cerca di fortuna. Si propongono musiche, motivi e coreografie che, tramandati di padre in figlio per generazioni, hanno accompagnato feste e ricorrenze particolari.

Anche il costume indossato dai componenti del Gruppo riproduce il vestire contadino di fine Ottocento, restando fedele ai colori, agli abbellimenti e ai dettagli originali. In particolare, si propone il vestito da festa, senza volerlo trasformare in uniforme coreografica.

L’abito maschile…
Per l’uomo risulta un costume molto essenziale: un cappello a tesa medio-larga con ornamenti personali che rimandano alla cacciagione, quali ad esempio penne di fagiano o di gallo cedrone, infilate nel nastro. Un’ampia camicia di tela di canapa, con colletto “alla coreana” e manica lunga. Il panciotto con taschini, la giacca e i pantaloni con “patelon chiusi al ginocchio, dalle tonalità scure del marrone, blu e nero-grigio. La fusciacca, i calzettoni di lana allacciati con pon-pon colorati e infine ai piedi le “dalmede” con suola di legno, adatte a qualsiasi terreno e condizione meteo. Completano il costume gli oggetti personali, come ad esempio il fazzoletto nella tasca dei pantaloni e annodato attorno al collo, a protezione della camicia, l’orologio con catenella, la tabacchiera di corno o di betulla o la pipa per i fumatori. Nei periodi invernali, l’uomo dispone una lunga mantella di tessuto pesante, a protezione dell’intero costume.

… e quello femminile
Per la donna, il costume appare più vivace nei colori ed elegante nei preziosi dettagli: un corpetto di velluto, a maniche lunghe, con bottoni di madreperla fino al collo e pizzi decorativi. Una gonna lunga e ampia di tessuto spesso, detto “gramolon”, che tradizionalmente doveva essere facilmente adattata ai vari momenti di vita, compreso il periodo della gravidanza, senza necessitare di ulteriori abiti. La gonna è protetta di un grembiule (“traversa”), chiusa dietro da un fiocco di nastri colorati e abbellita da campanellini che tintinnano con i movimenti; secondo i racconti tradizionali, ad ogni nastro corrisponde un fidanzato che la ragazza ha avuto. Sottogonna e mutandoni bianchi, con pizzi e nastri in coordinato al giubbino, uno scialle con decori floreali sulle spalle. Calze a mezza gamba, con righe bianche e rosse, ai piedi “zopele” con suola in legno oppure “scarpet” di panno nero, abbelliti con ricami floreali. I capelli vengono acconciati raccolti, con crocchia sulla nuca dove si appuntano, uno ad uno, gli aghi d’argento detti “spilloni”, disponendoli a raggiera e completando l’acconciatura con i “tremoi”, ossia degli aghi che hanno la particolarità di non avere la capocchia lavorata in testa, bensì un ornamento che si muove (tremava proprio) con i movimenti stessi della donna. La corona di spilli d’argento ha una quantità variabile di aghi per rispettare la tradizione che vedeva questo gioiello come prezioso dono di matrimonio da parte dell’uomo alla futura sposa ed esprimeva, nel contempo, la provenienza sociale e lo status della famiglia del marito: tanto più era facoltosa, tanti più spilli la ragazza riceveva in dono. A riguardo dell’origine geografica degli spilli, fonti orali tramandano che essi siano stati un ornamento portato nelle nostre vallate dalle donne che partivano per le zone della Lombardia, in particolare sul lago di Como, come balie di facoltose famiglie, come descritto anche dal Manzoni ne “I promessi sposi”(cap. VIII): “I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola”. In alternativa alla corona di spilli, le ragazze indossano un fazzoletto da testa ripiegato. Anche per donne è previsto uno “sciallone” di tessuto pesante da indossare nei mesi più freddi.

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