Se sei veneto, la polenta fa parte della tua vita. Del dì di festa, in versioni soffici e cremose, o in dure fettine da arrostire col formaggio. In tutte le sagre, in tutte le case, la polenta è pietanza regina dei pranzi familiari. A casa mia, fu sempre la protagonista della tavola di domenica, quelle tavole di famiglia e di buono di formaggi fusi, di spezzatino e di pastin.
A casa mia, ogni volta che il tagliere fumante appare, si comincia a raccontare di quando nella credenza vecchia, di là, non si prendevano sacchetti di farina, ma mestoli, da un vano ampio, anta e ribalta, che ne conteneva molti chili, perché si era in tanti, lì nel cortile, e si mangiava polenta e poco altro. C’era la parte per la farina bianca, quella per il pane, che si faceva una volta la settimana e veniva mantenuto morbido dentro i canovacci, e quella per la farina gialla da polenta che si riempiva dopo aver raccolto e sgranato le pannocchie, usandone le foglie per i materassi, naturalmente. Nella credenza, quella fatta con il ciliegio abbattuto quel giorno.
Va detto che la mia famiglia paterna è di antica stirpe contadina, e aveva molte bestie nella stalla, pollame e conigli nell’aia, campi e pascoli, lassù in Nevegal, il colle sopra Belluno, quando era ancora un immenso prato erboso e non la foresta che è diventato. In cima al colle, in prossimità della casera presso il pascolo di Cornigol, c’era un ciliegio, alto, frondoso e antico, giusto giusto – pensò mio nonno – per fare quella credenza di cui si aveva bisogno in cucina. Fu così che un mattino d’inverno partirono dalla stalla di Caleipo mio nonno, a dirigere la spedizione, un grande carro da fieno robusto e affidabile, due cavalli da tiro giganteschi e docili, i miei zii, uomini giovani e vigorosi, Armido, Arduino e Massimo, il cane lupo Monte, sentinella e custode di bestie e bambini, e un piccoletto di pochi anni, mio padre, emozionato, e trepidante all’impresa.
Si cominciò presto con il segone, avanti e indietro, tira e spingi, e alla fine, a furia di fatica e bestemmie, l’albero si arrese al suo destino, rovinando sul prato con un fragore memorabile. Ora non so se la scena dell’abbattimento fosse davvero così epica e assordante, posso immaginare che lo fosse agli occhi e alle orecchie di un bimbo meravigliato e felice, ma comunque doveva essere una pianta di dimensioni ragguardevoli, e spettacolare – mi piace immaginare – il momento dello schianto. Si cominciò quindi con accetta e scure, via i rami accatastati con ordine per l’inverno, via la ramaglia legata in fascine buone per il forno o accendere il fuoco, via le foglie, messe da parte per le stalle. Il ciliegio, morente, dava ancora i suoi frutti.
Gli uomini lavorarono di gran lena per molte ore, il bambino e il cane saltellavano intorno e portavano polenta e formaggio e vino rosso per pranzo. Poi, la gigantesca pianta si dovette issare sul carro. L’impresa fu eroica, tal da ricordarla perfettamente dopo oltre mezzo secolo: si spostarono sul fianco del carro i cavalli che, abituati al giogo e alla voce del padrone, tirando le corde con le quali si era imbrigliato l’albero, lo fecero scorrere sulle stanghe fino e farlo rotolare sul fondo del carro, in perfetta stabilità sul prato sterrato.
Il lavoro certosino di corde, sincronia e ritmo necessario per portare a termine il tutto, erano compito dei miei zii; mio nonno comandava i suoi soldati, come un generale la sua armata, raccomandando al bambino di controllare che tutto fosse in ordine e si svolgesse come Dio comanda. Guarda bene, che così impari come si fa, disse mio nonno a mio padre.
Eppoi via, giù per la Calmata, tra curve e ghiaia e polvere, fino ad arrivare giù, con i freni di faggio già quasi consumati. Par quasi di vederla la compagnia dell’albero, più stanca e felice di quando era partita all’alba, un padre che reggeva le redini dei cavalli ad aprire il corteo che entrava trionfante in paese, tre figli giovanotti, uno per lato del carro, un bambino e un cane. I cavalieri che fecero l’impresa.