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Guerra sul fronte Greco Albanese

1940-1941

Guerra sul fronte Greco Albanese

1940-1941

Mussolini disse: “Spezzeremo le reni alla Grecia” e il 28 ottobre 1940 truppe italiane (105.000 uomini) dall’Albania varcarono il confine con la Grecia (nazione filofascista). Solo l’intervento della Germania in aprile del 1941 ci salvò dalla disfatta. Sui monti, tra fango e neve, avemmo 40.000 tra morti e dispersi e 70.000 feriti. Questa è la testimonianza di Valentino Deon da Villa di Sedico sbarcato col suo battaglione nel porto di Valona il 25 novembre 1940:

“Andarono quindi gli alpini del battaglion Belluno in Albania con equipaggiamento insufficiente (stivaletti anziché scarponi e fasce alle gambe). Col 91/38 e la mitragliatrice Breda, sbarcati nel porto di Valona e poi avviati coi vecchi camion Bl/ter (dalle ruote piene) al fronte che lì voleva dire i monti Bregianit e Golico, ai piedi dei quali scorre la Voiussa.
I Greci erano ben equipaggiati per l’inverno e ottimi mortaisti: col primo colpo aggiustavano il tiro, col secondo centravano il bersaglio. Noi eravamo su una posizione sovrastante un villaggio e potevano vedere perfino la gente che vi abitava. Tra noi e i Greci, dopo un certo periodo, c’era una tacita intesa di non spararci. Un giorno, arrivò un gerarca fascista che diede ordine di sparare contro il villaggio; i nostri artiglieri gli fecero presente quale sarebbe stata la reazione ma lui fu irremovibile: così il colpo di mortaio greco che seguì, colpì in pieno la tenda con tre nostri sottufficiali e il fascista se la svignò velocemente. Siamo arrivati lì in novembre e vi siamo rimasti per 6 mesi: eravamo in 1200 uomini e precisamente le Compagnie 77a – 78a – 79a e Comando. Subito ci furono morti e feriti tra i nostri reparti: anch’io a un polmone (e ne porterò le conseguenze per tutta la vita). Ero stato ferito (il 20 dicembre 1940) quando, visto cadere il mitragliere coi Greci avanzanti, mi ero messo alla mitragliatrice. Era stato un errore aver posto davanti la mitragliatrice anziché i fucilieri. Fui avviato all’ospedale militare a Valona. I feriti venivano fatti sdraiare sulla paglia piena di pidocchi all’interno dei capannoni del porto: molti erano i congelati e altri a causa dei pidocchi morivano di cancrena. I superstiti, guariti, rimandati al fronte con scarpette da ginnastica, ritornavano di lì a pochi giorni a Valona congelati: subivano così amputazioni.
Chissà quanti avrebbero potuto salvarsi: c’era un solo medico. Sul fronte, ci eravamo accorti in primavera (del 1941) che tra le nostre linee e quelle greco-albanesi pascolava un gregge di pecore che si spostava ogni giorno. Un giorno il nostro comandante mi ordinò di sparare sul gregge con la mitragliatrice: fu una strage; la piana era tutta bianca dei corpi delle pecore poi lasciate lì. Segnalavano coi loro spostamenti le nostre posizioni giorno per giorno. Da quel giorno non abbiamo più visto greggi. I fascisti un giorno vennero mandati a tenere una quota che di continuo poi perdevano finché tornarono definitivamente indietro; qui li aspettavano gli alpini dell’8° che spararono contro questi fascisti mandati qui solo per far bella figura dopo che gli «arditi» (gli alpini celibi che si offrivano volontari) si erano sacrificati per conquistarla. Si dice che l’8° alpini (la Julia) sia stato mandato poi in Russia per punizione per questo atto (indicando in Mussolini il responsabile). Gli alpini ce l’avevamo coi fascisti pure perché pigliavano una «deca» (era l’esigua ‘paga’ giornaliera corrisposta ogni 10 giorni) molto più alta ed erano equipaggiati meglio. Io ero sergente e avevo l’elenco di quanto ci spettava; ebbene, dopo 3 giorni al fronte, mi portarono mezzo cucchiaio di cognac per due, una miniscatoletta di carne con una galletta. Per bere, dovevamo sciogliere la neve. Erano le donne greche che ci portavano su i viveri.

Un giorno, mentre eravamo usciti di pattuglia, ci trovammo improvvisamente, a causa delle asperità del terreno, di fronte a una pattuglia greca; tutti eravamo pronti a sparare, quando il nostro tenente e quello greco si riconobbero e si abbracciarono: erano due cari amici di Milano, cresciuti assieme, andati all’accademia assieme e poi separatisi forzatamente perché, all’emanazione delle leggi razziali in Italia, uno dei due, ebreo, era fuggito in Grecia. E anche noi soldati abbiamo fraternizzato. Fui dimesso dall’ospedale militare da campo di Valona (Albania) e ricoverato in quello di Foggia il 24 maggio 1941. Ero talmente ridotto male che all’ospedale, per la convalescenza, mi chiamavano «l’ombra vivente». Qui mi rimisi in carne e in forze e dovetti rientrare al Corpo a Belluno il 30 luglio 1941 per continuare il servizio in guerra”.

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