Quale miglior luogo per parlare di sport se non la Valbelluna? Un territorio vasto e variegato, che si presta all’esercizio di molte discipline diverse e che ha le caratteristiche per soddisfare qualsiasi tipo di esigenza. Insomma, apparentemente l’El Dorado degli sportivi.
Ma è veramente così?
Tra un trail runner, un amante del parapendio, un ciclista e uno scalatore, c’è anche chi per portare avanti la propria passione si trova di fronte a mille ostacoli. Ne parliamo con Claudio Novelli e Giuseppe Dal Mas, tecnici federali della Boxing Club Belluno ed esperti di sport da combattimento, che ci raccontano cosa significa gestire una palestra di uno sport “minore” sul territorio bellunese.
Un territorio ampio e con meno popolazione
Partendo dall’ampiezza del territorio, che mal si sposa con il bacino ridotto di atleti. Infatti, la provincia di Belluno conta una densità di popolazione di circa 55 abitanti per km2, contro, per portare un esempio, gli oltre duemila di una provincia come Milano. Gli sport più diffusi e popolari, come il calcio e l’atletica, vedono nascere piccole realtà anche a livello di paese, ma non è così semplice per tutti. Il nostro territorio non dispone dei mezzi di trasporto adeguati e ciò richiede agli atleti una vera e propria prova d’amore. «Abbiamo ragazzi che arrivano da Agordo» racconta Claudio «e fanno anche 40 minuti di strada per raggiungere la palestra. Ma è facile perdere la motivazione, soprattutto per i più giovani che non possono muoversi in maniera indipendente».
L’ostacolo culturale
Una cosa è certa: tutti gli sport dovrebbero avere lo stesso riconoscimento. Ma nel caso degli sport da combattimento ci si può facilmente rendere conto di come vengano erroneamente considerati violenti e pericolosi. Un ostacolo culturale non da poco, che colpisce tanti altri sport minori in maniera diversa. Nessuno vuole iniziare un’attività in cui il rischio è quello di farsi male, soprattutto se si è genitori. «Quando portano i ragazzi, noto sempre quel velo di scetticismo e preoccupazione» spiega Claudio, «che in realtà non dovrebbe esserci, perché noi come tecnici del Coni – Comitato olimpico nazionale italiano – siamo preparati come tutti gli altri, dall’attività giovanile alla prevenzione degli infortuni. Essendo uno sport di contatto, dobbiamo essere molto più attenti e ciò si traduce in una maggiore tutela dell’atleta». «Risultiamo essere uno sport più educativo di quelli più in voga» continua Giuseppe, «che, al nostro contrario, in gara e in allenamento sono spesso più selettivi e non lasciano spazio al ragazzo che non ha la prestazione migliore e non trova, di conseguenza, la sua dimensione. Il nostro è un ambiente sportivo dove c’è una profonda umanità». «Inoltre,» conclude Claudio «spesso sentiamo ancora dire che il bambino può venire in palestra solo se è bravo a scuola, ma lo sport non dovrebbe essere visto come un lusso, piuttosto come un fattore di inclusione, partecipazione e costruzione del proprio ruolo sociale, nonché fondamentale per il benessere fisico e lo sviluppo».
L’agonismo oggi
«Per quanto riguarda l’agonismo, invece, relazionandomi con gli istruttori di altri sport,» spiega Claudio «abbiamo un problema comune. Si stenta a trovare gli atleti. Rispetto a qualche anno fa, i ragazzi sono molto più impegnati: la scuola è più complessa e richiede più impegno, con lezioni e rientri anche nel pomeriggio. La verità è che, conclusi gli impegni scolastici, vorrebbero solamente rilassarsi e faticano a far coincidere questa necessità con la costanza che richiedono gli allenamenti». «Inoltre, Internet sta diventando il sostituto di ciò che una volta ti faceva provare lo sport, ora basta stare a casa per confrontarsi con gli altri» afferma Giuseppe, «con grosse ricadute a livello di stress e rabbia repressa, che invece potrebbero trovare una valvola di sfogo e controllo proprio in questo genere di discipline educative».
Questione di “montanari”
Ma poi, allenarsi in montagna dovrà pure avere qualche vantaggio, no? «Ho fatto il mio primo combattimento di pugilato a Padova» ricorda Claudio. «Mentalmente ero già sconfitto, pensavo solo a quanti atleti aveva il mio avversario di città con cui confrontarsi, mentre io potevo allenarmi solo con il mio amico Luca. Fu un match durissimo e lui vinse davvero per poco. Ricordo che, quando scese provato dal ring, il suo maestro gli disse che con i montanari non bisogna mai buttarla sulla baruffa. Lì ho capito che anche lui era in soggezione, perché noi siamo spesso visti come gente dura e abituata alla fatica. Da quel giorno ho considerato la mia origine come un orgoglio. D’altronde, chi ha la fortuna di potersi allenare in un territorio così?».