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Frecce in Valbelluna

Colpire da lontano

Frecce in Valbelluna

Colpire da lontano

L’alba della società vide nascere la corsa agli armamenti, utili tanto alla tecnica della caccia per procurarsi il cibo, quanto per sopraffare vicini mansueti da sottomettere, o meno docili da cui difendersi. Superato il limite dell’offesa legato all’area di azione del braccio, con spade e lance, si approdò ben presto ad arco e frecce che per secoli rimasero monopolio nell’armamento degli eserciti.
Questi vennero soppiantati a loro volta da balestre e verrettoni (frecce da balestra) anche se moralmente frenati, ma solo per poco tempo, da remore religiose. Si considerò che chi, nel mucchio, veniva colpito da un dardo inserito in nugolo di frecce (illuminante l’affresco per grazia ricevuta nel chiostro del santuario di San Vittore) era stato scelto dalla volontà di Dio; non così l’obiettivo preso di mira del balestriere, che per qualche tempo si paragonò ad un omicidio. Durò poco perché a breve se ne liberalizzò l’uso contro i saraceni prima, e poi contro gli eretici e via via, contro tutti gli altri avversari sul campo di battaglia.

Per noi, che viviamo in questa valle dove miriadi di dardi vennero scagliati e scambiati per secoli tra i vari eserciti, ma anche pezzi singoli usati da montanari per procurarsi pranzo e cena, non resta, a fronte di qualche punta ritrovata, che toglierci la curiosità di capire da chi quella freccia fu forgiata, usata, quando e perché.

Cominciamo col dire che le punte che si rinvengono sono di varie forme e di vari minerali ferrosi, evidentemente concepite e forgiate per sopperire a diverse necessità, ma non abbiamo un tale repertorio di illustrazioni coeve che le rappresentino tutte per poterle accostare filologicamente tra loro. Una delle poche che si riscontrano nella pittura si trova nell’olio su tavola “Giardino delle delizie” (o anche “Inferno”) di Jeronimus Bosch, chiamata “quadrello” per la sezione quadrata che lo contraddistingueva. L’ipotesi più verosimile è che si tratti di un produzione per uso militare perché per la necessità venatoria si usavano dardi difficili da togliere o rimuovere e che comunque producessero una scia di sangue utile per seguire e catturare l’animale ferito. Non così le produzioni militari, non per bontà d’animo, ma perché le usavano anche gli avversari, che spesso e volentieri riciclavano a breve questa punta su un’altra assicella di legno.

Il problema ora è dove furono prodotte. Salta agli occhi il fatto che, dopo almeno trecento anni (ex post l’avvento del monopolio delle armi da fuoco per caccia e guerra che le portò a rapido declino), le nostre sono pochissimo intaccate dalla ruggine. Caratteristica questa che per la produzione di armi bianche portava a privilegiare le prestigiose fucine delle rogge della Valbelluna che usavano il ferro delle miniere del Fursil perché più facile da lavorare, ma anche elastico e resistente nell’uso bellico.

Tutto partiva dal minerale ferroso estratto sotto il monte Prore a Colle Santa Lucia (siderite magnesifera, che conteneva cioè il 4-5 per cento di magnesio, che assicurava queste ottime caratteristiche così ricercate). Venne chiamato “ferro agnello” perché risultava marchiato con l’Agnello del Battista, simbolo proprio del principe-vescovo di Bressanone che ne deteneva la proprietà. Proprietà ricca e di continua prosperità che faceva gola a molti vicini: dalla Serenissima perennemente affamata di armi bianche, ai minatori cadorini in concorrenza con quelli badioti e trentini, ai contrabbandieri bellunesi che per comodità di “commercio estero” si costruirono anche delle più agevoli strade carrarecce (la Vena che in antico parlato bellunese vale quale percorso per convogli di trasporto di materiali).

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