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Far le parole coi s’cios

la tradizione delle scritte di S. Agapito

Far le parole coi s’cios

la tradizione delle scritte di S. Agapito

Far le parole coi s’cios: era questa l’espressione che usava dire Jio dei Gnudi (Luigi Budel) quando mi parlava della festa di Sant’Agapito. A Cesiomaggiore, ad ogni vigilia di Sant’Agapito, si ripete un antico rito in onore del Santo copatrono della parrocchia. La notte del 17 agosto gli abitanti della Valle salgono sulle pendici del Monte Palmar e illuminano quattro grandi lettere WSAM, iniziali di Evviva San Agapito Martire e dal segno di una Croce.
Nessuno sa dire con precisione come abbia avuto inizio questo rito che ha mantenuto nel tempo un forte legame tra gli abitanti di Cesio e il loro Santo patrono. La memoria orale lo fa risalire almeno agli inizi del secolo scorso.
Uno dei caratteri che definiscono l’identità di una comunità è proprio il riconoscersi nel proprio patrono e la trascrizione fisica del legame tra la comunità e il Santo è espressa nei riti che si celebrano. A Cesio tutto prende il via il 14 agosto con le melodie del campanò che si ripetono il 16 e il 17. La notte della vigilia, al primo suono delle campane, si accendono le scritte sul Palmar e contemporaneamente si illumina la croce della Perina e la chiesetta, mentre nella valle riecheggiano le potenti esplosioni dei mascoi. Il giorno dopo i fedeli in processione salgono verso il centro della Valle dove, da oltre quattro secoli, c’è una chiesetta dedicata al Santo e lì il parroco celebra la santa messa.
L’organizzazione dei rituali della festa segue un preciso calendario rispettato scrupolosamente, del quale si fanno carico materialmente alcune famiglie della comunità che, per tradizione, sono maggiormente devote e coinvolte. E un rito che si ripete nel tempo è una tradizione. Ripetere è tutto nella cultura popolare che si trova, inevitabilmente, a interagire e confrontarsi con il quotidiano e con la modernità. L’antico procedimento di illuminare le parole con i gusci delle lumache (erano necessari oltre 300 scrot o scrosoi che venivano riempiti con olio d’oliva in cui era stato inserito uno stoppino), verso la fine degli anni 70, fu sostituito da un lungo filo elettrico con decine di lampadine alimentate da un generatore. Una soluzione meno romantica, ma molto pratica e soprattutto indispensabile a mantenere in vita la tradizione.

La tradizione è una memoria dentro il tempo e i popoli e le loro civiltà vivono di memoria. Tramandare la tradizione delle scritte sul Palmar significa conservare la nostra vita di montanari, la nostra civiltà, riconoscere le nostre radici, affermare che siamo parte di un luogo, di quel luogo. Attraverso i riti collettivi in onore del Santo, la comunità di Cesio si riappropria ogni anno del suo territorio e dimostra ai paesi vicini di esistere. In questo modo la festa religiosa non celebra solo il divino ma ricorda anche di essere una comunità e la sua appartenenza a questa terra.

Una comunità quando abita un luogo si fa paese e, come scriveva Cesare Pavese nel primo capitolo de “La luna e i falò”, romanzo che racconta la storia di un ritorno a casa, “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Nelle grandi città, con tanta gente in giro, ci si sente spesso soli, senza memoria, senza tradizioni. Ecco perché la tradizione è la memoria che mai ci rende soli. E un mondo in rovina è un mondo senza tradizioni.

Oggi la tradizione delle scritte sul Palmar vive attraverso un gruppo di giovani che ha ereditato dagli anziani (i “custodi della tradizione”) le regole, le azioni e i luoghi. E in un ciclo che si dipana nel tempo, anche loro hanno iniziato a trasferire la tradizione ai loro figli che a loro volta, come i loro padri, la trasmetteranno ai loro amici e famigliari.
La tradizione è un bene culturale che pone a confronto il ricordare la memoria con le azioni, i fatti, gli oggetti e i luoghi. La tradizione delle scritte sul Palmar è un bene culturale, testimone di una memoria che ha valore di civiltà. Un bene immateriale che diventa reale nella sua esecuzione e questa è una ragione sufficiente per conservarlo e tutelarlo, con la stessa attenzione e cura che si dedica ad un monumento o ad un’opera d’arte di cui nessuno può permettersi di perdere.
In memoria di chi ci ha preceduto e per dare conoscenza alle generazioni che verranno dopo di noi, durante l’ultima vigilia di San Agapito abbiamo intervistato, filmato e registrato. Vorremmo realizzare un cortometraggio che racconta la tradizione: le regole, le azioni e i luoghi di “far le parole coi s’cios”. Evviva San Agapito Martire.

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