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El Gaburo del KAREGHETE

Primo premio XI ed. “Sospirolo tra leggende e misteri"

El Gaburo del KAREGHETE

Primo premio XI ed. “Sospirolo tra leggende e misteri"

La fiamma del camino illuminava la piccola stanza dove Antonio, in arte Toni, stava terminando il lavoro. Era seduto sul pavimento in cemento grezzo ed indossava una pesante giacca che gli copriva le spalle, mentre le gambe incrociate erano coperte dai pantaloni lunghi ed usurati. I suoi occhi azzurri seguivano attenti le cuciture della sedia, mentre le mani, grosse e segnate, passavano con precisione il filo per fissare la paglia alla traversa. Ero seduto a fianco a lui in silenzio, ad osservare la cura con cui riparava la sedia del nostro cliente, che per quella notte ci avrebbe dato un posto dove dormire.

Guardai per un momento la finestra che dava all’esterno, dove nuvole oscure coprivano il cielo stellato. Un soffio di vento gelido proveniente dalle Alpi de Lipona2 entrò tra le fessure, facendomi tremare e, quando mi volsi, vidi la mano del kónža3 che attendeva con il palmo alzato. Osservai gli attrezzi, non sapendo quale passargli e, prima che potessi dire qualcosa, la mano si chiuse a pugno colpendomi sulle gambe.

“Dame l’èrfe antivia”4 disse Toni, fulminandomi con lo sguardo.
Presi il chiodo e glielo passai, poi con un colpo del martello lo fissò al telaio e pose la sedia vicino al tavolo. Era la quinta consecutiva e per quella sera aveva terminato. “In sta busk s’è kèbro.5 Toi l’artèkua”6 disse alzandosi e stirando la schiena.

Andai velocemente a prendere paglia e coperta, preparando il nostro letto per quella notte. Quando ci sdraiammo appoggiandoci schiena contro schiena, con le gambe rannicchiate, Toni mi disse: “Se te voi šbatočàr,7 te ghe da vardar imi, no vardar lo Stelón de bèrna8 fora el finéstral”. Fu questa la sua buonanotte.

Il mattino seguente mangiammo del pane e partimmo seguendo la via sulle montagne piemontesi. Mancavano ancora diverse settimane per raggiungere Gosaldo, ma dopo mesi passati all’estero era già come essere a casa. Il cielo era nuvoloso, ma secondo Toni non avrebbe piovuto e sapevo che così doveva essere. Guardai l’uomo che mi aveva accolto come gaburo9 in nome dell’amicizia del mio defunto padre e mi chiesi se un giorno sarei riuscito ad essere come lui.

Dopo quei mesi passati a viaggiare riparando sedie e mobili, sarei sicuramente tornato a casa con nuove conoscenze e forse avrei trovato un buon lavoro. Alzai lo sguardo dal sentiero selciato ed ammirai le Alpi innevate, che facevano da cornice alle valli coperte dalle chiome degli alberi. Le foglie rivelavano che l’autunno era prossimo ed anche il vento soffiava annunciando un inverno freddo e piovoso. Seppure mancassero pochi giorni ai miei undici anni, la montagna la conoscevo bene. Vivendo in una casa senza tetto e con fori tra il legno delle pareti, avevo imparato presto a conoscere il tempo e le sue stagioni.

Camminammo fino al primo pomeriggio, quando ci fermammo in un ronk10 fatto di case in mattoni a due piani. “Ricordate che semo busk, se parla taglian con lori, ma quando laoremo usemo el skapélament”11 disse bussando alla porta della prima casa. Dopo diversi tentativi, un anziano aprì l’uscio guardandoci con occhio torvo.
“Cosa vuto?” chiese a Toni.
“Gheto careghe da riparar? Serchemo par dormir”.
“A go si. Vien rento ma el bocia ga da torme el late” disse indicandomi. Ci togliemmo le scarpe e scalzi percorremmo lo stretto corridoio, che attraversava tutta la casa. Il pavimento di legno umido e vecchio scricchiolava sotto i nostri piedi, mentre seguivamo l’andatura dell’anziano che ci mostrò una piccola stanza. Non c’erano mobili, ne sedie lì dentro. Sarebbe stata la nostra camera da letto per quella notte.

Appoggiai per terra il nostro borsone e presi il secchio in latta che l’anziano mi porse. Mi squadrò da testa a piedi ed io abbassai lo sguardo.
“Te ve dal fornaro par el pan” aggiunse indicandomi con le mani magre e secche la porta d’uscita. La via dovevo trovarmela da solo, lui aveva fatto anche troppo. Toni rimase lì, seguendo il vecchio verso la cucina.

Tornai che il sole tramontava. Le fangóše12 erano inzuppate d’acqua e sporche di fango e quando bussai il vecchio mi ordinò di lasciarle fuori. “No te vien rento” mi disse. Non protestai e lasciai le scarpe alla brina del giorno dopo. Sentii Toni lavorare nella stanza in fondo allo stretto corridoio e lo raggiunsi in fretta.
“Dove sito sta?” mi chiese vedendomi.
“A tore da magnar” dissi sedendomi di fianco. Sentivamo lo sguardo diffidente dell’anziano studiarci sul ciglio della porta e ci scambiammo un cenno d’intesa. Aspettammo che andasse in cucina, prima di tornare a parlare. “Go mis e taf ne la gòna”13 dissi, mostrando la refurtiva che nascondevo sotto la maglia. Toni osservò per alcuni secondi la polenta, evidentemente affamato e non disse nulla in segno di approvazione. Abbassai la maglia, sentendo il rumore dei passi che si avvicinavano.
“Come sito ciapà con le careghe?” chiese il vecchio.
Guardai il telaio che stringeva Toni, notando che il sedile e le gambe erano completamente rotti. Ci volevano chiodi e tempo, entrambi molto costosi.

“Ghe metaró la notte” rispose.
“Gavarìa altri laori” disse allora il vecchio indicando un vecchio armadio sul angolo. Un leggerlo mormorio proveniente dal legno indicava che fosse pieno di tarme al suo interno. Toni scosse la testa “Doman ghemo da partir” disse, mentre io lo guardavo sorpreso. Non avevamo impegni.
“Eora doman partì ante de magnar” concluse l’altro, andandosene brontolando.

“Cosa gheto dito?” chiesi subito dopo sottovoce.
“En sta busk no ghe se Mažaruól e pin.14 No ga batòči”15 concluse. Poi si rimise all’opera ed io con lui. Osservai le mani che tagliavano finemente gli angoli, smerigliandoli e segnandoli in modo che fossero complementari. Raschió il legno marcio ed umido, soffiando sulla polvere accumulatasi e legando la paglia al telaio. La lama del coltello tranció la parte superiore delle gambe della sedia, togliendo la superficie e creando un’incastonatura, che poi utilizzò per inserire il telaio su tutte e quattro le vecchie gambe. Usò un solo chiodo per riattaccare lo schienale spezzato e, con la medesima tecnica, creò degli inserti per infilare l’ultima parte mancante della sedia. Toni mi fece un gesto e mi sedetti sopra provandola. Il mio peso era paragonabile a quello del vecchio e sicuramente non aveva amici, quindi quello bastava.

Accennò con la testa e si alzò per andare a mangiare nell’altra stanza. Il vecchio ci aveva preparato metà pagnotta ed un bicchiere di latte da dividere in due. La polenta e l’acqua che avevo raccolto servivano per la colazione e per quella sera dovemmo accontentarci. Mangiammo silenziosamente per non farci udire dall’anziano che dormiva nella stanza accanto e ci sdraiammo sulle giacche stese sul pavimento. Usavo un braccio come cuscino, mentre l’altra mano la scaldavo tra le gambe rannicchiate ed ogni tanto cambiavo posizione invertendo gli arti. Così passó un’altra notte.

Ripartimmo senza vedere l’anziano ed avviandoci lungo il sentiero tra le colline. Alzai gli occhi osservando il cielo azzurro e chiedendomi tra quanto saremmo arrivati a casa. “Perché te tasi? Preferiso co te baregi”16 disse Toni volgendo lo sguardo su di me.
“So drio pensar al marantegon,17 no lo ghemo visto stamane. No s’è ke Kuéla dala stòrta18 lo ga tolto?” chiesi.
Per la prima volta vidi Toni ridere.

“Te si un berlìk!19 Camina che la iavi20 s’é longa e gavaremo da dormir fora se no catemo nient. S’é l’ora ke te intordi lopa”21 disse sorridente.
Lo guardai felice e sorpreso. Dopo tanti mesi mi avrebbe lasciato intagliare e, seppure avessi ancora molto da imparare, sarei tornato a casa come un vero karegéte.

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