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Due giorni dopo l’ultimo

la cultura della morte è cambiata con gli anni

Due giorni dopo l’ultimo

la cultura della morte è cambiata con gli anni

L’argomento, per nulla allegro, origina dalle sensazioni emerse in questo brutto periodo legato al Covid-19 ed in particolare dalla tristezza che ha caratterizzato le cerimonie funebri di questi ultimi mesi. Lo stato di pandemia ha costretto tutte le famiglie colpite da lutti a cerimonie private, quasi clandestine, senza possibilità da parte di amici e conoscenti di condividere con lo stretto nucleo familiare il sentimento di dolore, di solidarietà e di affetto o amicizia.

L’atmosfera talvolta mi ha fatto paragonare i funerali dell’era Covid ai riti funebri clandestini dei primi cristiani nascosti nella profondità delle catacombe. Nella parrocchia di Santa Giustina quantomeno il feretro ed i parenti intimi dell’estinto hanno potuto entrare in chiesa, viste le sue ampie dimensioni, per un momento di “sacralità” del rito; in altre zone no, veniva fatta una rapida benedizione alle porte del cimitero, senza manifestazioni di solidarietà che avrebbero potuto quantomeno confortare i parenti e, dopo la breve cerimonia, l’estinto partiva per la cremazione. Almeno nelle nostre zone non si sono viste le colonne di camion militari carichi di bare destinate alla cremazione nei vari inceneritori del Nord-Italia, ma soprattutto non si sono smarrite le ceneri come avvenuto nella confusione dei grandi centri urbani. All’inizio dell’epidemia, per il timore che la gente partecipasse al rito funebre, non obbedendo alle varie ordinanze, veniva addirittura data pubblica notizia del decesso solo a cerimonia avvenuta.

Mai come in questo periodo la morte è stata “una livella”, come recitava il celebre Totò in una famosa poesia dedicata alle tombe affiancate del nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno, ardimentoso eroe di mille imprese, e del netturbino Gennaro, “o scopatore”, e come ricordavano ai nostri nonni anche i teli funebri dipinti rinvenuti nella soffitta della canonica di S. Giustina. Tali dipinti venivano affissi sul cassone di appoggio della cassa durante il funerale: le scritte riportate “sic transit gloria mundi” e “pulvis et umbra sumus terrae”, assieme alle sagome dipinte, ricordavano a tutti che la morte non distingue nessuno: imperatori o re, papi o prelati, pittori o musicisti, contadini, artigiani o muratori.

Tuttavia, prima dei mesi di epidemia, pur rimanendo la morte e il dolore l’evento centrale, erano molto differenti le manifestazioni di solidarietà ed in particolare le modalità di accompagnamento che risentivano di tanti fattori, delle consuetudini diverse da zona a zona e del livello socio-economico. Forse le differenze nelle cerimonie funebri erano fin troppo marcate nel passato, fino agli anni 60, dopo di che divenne comune l’uso di automezzi a motore adattati a “carro funebre” che sostituirono l’usanza di trasportare il feretro a spalle o su un carro.

Una volta, quando la gente moriva in casa perché l’ospedale era un lusso, non essendoci le casse mutue né altri ammortizzatori sociali, gli eventi funebri evidenziavano le differenze sociali fin dalle prime ore di lutto. Nei nostri paesi il lutto era, come lo sarebbe tuttora in situazioni di normalità, un evento molto condiviso. Più che dal passaparola o dalle epigrafi, il primo triste annuncio di lutto veniva dato da un drappo nero che listava il portoncino d’ingresso.

All’apparire del drappo, iniziava il silenzioso via vai delle persone dell’intera comunità per rendere omaggio al defunto ed ai parenti. La porta di casa rimaneva accostata per ospitalità, mentre tende e balconi rimanevano chiusi per lasciare gli ambienti in penombra nel rispetto della morte. Quando si prevedeva un grande afflusso di persone, veniva scelta la stanza più grande o l’ingresso della casa per allestire la camera mortuaria, scostando i mobili, con paramenti, tappeti, coperte di broccato e candelabri dorati. L’aria si saturava presto col profumo dei fiori e della cera ardente.

Il religioso silenzio era rotto solo dal pianto dei familiari e dalla sommessa recita del rosario. Per il trasporto alla chiesa ed al cimitero, le modalità erano diversificate in base alle disponibilità economico-sociali della famiglia: la bara poteva essere trasportata a spalle da amici e conoscenti ma poteva anche essere utilizzato un carro funebre in legno, le cui caratteristiche variavano a seconda che il funerale fosse di prima, seconda o terza classe. La carrozza di prima classe, scelta per prestigio e massima visibilità, era imponente, con cocchiere in livrea dai bottoni dorati e cavalli bardati con finimenti di lusso ed arricchita da colonnine, capitelli e ganci per i cuscini di fiori.

Il cocchio procedeva con andatura lenta e solenne e, nel silenzio della strada, si sentivano solo la preghiera del sacerdote e il tonfo degli zoccoli. Il corteo era preceduto dalla sfilata delle corone, fatte da rami di palma intrecciati ed arricchiti da inserti di fiori, portate a mano, una dietro l’altra, da amici e volontari. Davanti al feretro sfilavano gli uomini ed eventualmente i bambini in fila, dietro i parenti, gli amici e le donne.

A volte, in qualche funerale eccellente, partecipava anche la banda musicale, che si collocava in genere davanti al carro. I musicanti in divisa procedevano inquadrati, alternando pensierosi silenzi a struggenti marce funebri. Neppure la cerimonia religiosa era eguale per tutti: poteva essere “ordinaria” oppure “solenne e cantata”.
Talvolta si utilizzava un semplice carro allestito al triste compito, in particolare in caso di funerali militari per caduti in attività belliche, lontano dalla famiglia e dal paese di origine, come in quello fotografato a Busche durante la prima guerra mondiale. Molto più spesso il caro estinto veniva portato a spalla da quanti erano vicini affettivamente al defunto o alla famiglia. Tale scelta a volte motivata da precise volontà di parenti ed amici era spesso condizionata da situazioni economiche.

Sicuramente l’idea che nell’aldilà si arriva spogli da ogni potere o avere temporale, portando solo credenziali etiche e morali, sarà stato ben presente nell’anima di Monsignor Giovanni Ferro, parroco di Santa Giustina, nel giorno in cui, dopo aver ricordato tali concetti nei tanti funerali celebrati, giunse il suo turno di essere accompagnato all’ultima dimora. Anch’egli varcò la soglia dell’oltretomba da solo, pur se accompagnato da un grande stuolo di confratelli, fedeli, “capati” e rappresentanti della “fabbriceria”. La sua bara venne portata a spalla dai fedeli che si alternavano a sorreggere i lunghi bastoni della portantina.

Ogni cerimonia funebre era ed è caratterizzata da altri fattori, anche dall’età e dal sesso della persona defunta. Tristi e generalmente poco frequentate erano le cerimonie funebri dei bambini. Agli inizi del secolo scorso i primi anni di vita erano segnati da elevata mortalità a causa di varie malattie infantili, per la cura delle quali non c’era ancora la disponibilità di farmaci né la possibilità di prevenzione grazie ai vaccini. Analizzando sia i “registri dei morti” in Parrocchia che gli alberi genealogici di quasi tutte le nostre famiglie si riscontra in passato una elevata mortalità infantile abbinata ad una maggiore prolificità…; raccontano i nonni che una volta la morte infantile era vissuta sempre con dolore ma con minore drammaticità rispetto ad oggi.

Quando invece a mancare erano un ragazzo o una giovane già inseriti nella comunità la partecipazione alle cerimonie funebri era consistente e molto sentita emotivamente come nel caso di una giovane di Sartena, accompagnata al cimitero da fanciulle vestite di bianco con grandi corone di fiori bianchi.

Anche la bara era avvolta da un telo bianco, colore dell’innocenza, anziché dal pesante drappo di panno nero usato un tempo.
Nella fotografia del funerale svoltosi ad Ignan negli anni 60, la bara in legno portata a spalla era stata preparata in vita dallo stesso defunto grazie alla sua attività di falegname; una prevenzione di cui allora non ci si stupiva perché la possibilità della morte era quotidianamente considerata ed a volte attesa come uno dei tanti eventi naturali che caratterizzano le tappe della vita. Tappa finale che anche in era recente pre-Covid coinvolgeva molto le comunità paesane con grande partecipazione di persone sia alle esequie in chiesa che nella processione funebre verso il cimitero; i funerali erano forse in questi ultimi anni la cerimonia religiosa più partecipata dalla popolazione per rispetto e ricordo del defunto e per solidarietà verso i suoi cari.

La pandemia ha improvvisamente stravolto il ciclo naturale della vita e della morte con una impennata di decessi e di proibizioni tali da sconcertare non solo le famiglie colpite in questo periodo da lutti ma ogni singola persona che ha perso un amico e l’intera comunità per la scomparsa di un suo componente e soppresso i gesti di solidarietà e partecipazione al dolore delle famiglie che solitamente si manifestavano attraverso le nostre tradizioni.

Le varie ordinanze restrittive ai gesti di solidarietà e partecipazione al dolore sono state applicate con responsabilità ma in genere mal sopportate; rimaneva la preghiera o una furtiva visita in cimitero (quando aperto…). Ora, nella fase 2, le “maglie restrittive” si stanno lentamente allentando e si attende di tornare alla usuale partecipazione comunitaria, ad un abbraccio ai parenti o semplicemente a scambiare con i conoscenti qualche ricordo comune.

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