Da bambina, il centro del mio mondo era Susin, frazione di Sospirolo, luogo amatissimo fra le dolci colline del bellunese, alle pendici di tre montagne di cui noi recitavamo i nomi in fila, e guai a sbagliare! Là stavano i nonni Virginia e Carlo, lassù la loro casa dalla forma un po’ stramba emanava il calore del nido, e mi piaceva più della casa di Padova. La villa del Dolo sulla Riviera del Brenta era ormai perduta per sempre.
Nella grande cucina bassa, lunga e umida, e nell’ampia stanza che la precedeva, col tavolone in mezzo dai mille cassettini, regnavano la nonna e la signora Maria, autrice e dispensatrice del purè migliore del mondo: ma siccome nonna Virginia faceva – secondo noi – la torta di noci e cioccolata migliore del mondo, le nostre valutazioni culinarie si equivalevano (salvo che la signora Maria si prestava volentieri a farci il purè, mentre la nonna si faceva pregare a lungo, e si concedeva raramente…)
Un cassetto dal lato corto del tavolo era però esclusivo dominio di nonno Carlo e del suo famoso coltellaccio, che di solito ci stava dentro, ben riposto e avvolto in un telo bianco, affilatissimo e usato solo per affettare il prosciutto che il nonno si faceva venire da un amico di Trieste. Erano entrambi vecchi alpini, compagni d’arme nella Grande Guerra, ed avevano tutti e due rischiato di morire sotto un attacco di gas nervini. La loro amicizia era leggendaria e ci veniva raccontata nelle ‘storie della sera nonnesche’ (probabilmente, a pensarci oggi, con molte infiorettature).
Poi i nonni morirono, e la casa rimase a uno zio. Nel frattempo, il paese di Susin perse il suo bellissimo albergo liberty, la macelleria, il panificio che faceva i panini con la zucca e con l’uva migliori della vallata, l’emporio dove nonne e zie trovavano e compravano di tutto.
La farmacia della signora Dirce, rinomato centro di chiacchiere e notizie, dove tutti passavamo almeno una volta al giorno, venne trasferita a Sospirolo. Ma io amavo la Val Belluna con tutto il cuore, e con il mio Paolo e con Carlo, il mio fratellino minore, cominciammo a cercare un altro luogo da amare.
Dopo lunghe ricerche lo trovammo, in cima a una frazione sperduta del comune di Santa Giustina: ci piacque subito il nome, Campel Alto, e la posizione di quella casetta abbandonata da dieci anni, che pareva come abbracciata dalla montagna. In cucina cresceva un robusto alberello, i muri erano coperti di muffe di diverso colore, il tetto pencolava tristissimo. Una vegetazione selvaggia incombeva da ogni lato, e nel vasto prato in forte pendio che si stendeva davanti, alcuni meli trascurati cercavano di sopravvivere. Nel breve selciato antistante pigre lucertole si godevano il sole. Ma a noi quel posto parve subito magico, isolato ma non troppo, con la valle aperta sotto fino all’orizzonte. Io scoprii dei carpini, uno dei miei alberi preferiti, e un folto di amabili noccioli, e un sentiero dietro la casa che portava lontano nei boschi.
Poi i nostri amici del cuore, Marta e Francesco, comprarono una seconda casetta un po’ più su sulla strada, e così ci demmo tutti da fare a restaurare e piantare alberi (io volli un bersò di carpini, ma non fu una grande idea…) e costruimmo insieme il nostro piccolo paradiso privato, ma aperto ad amici e bambini, pieno di risate, di Natali e Capodanni festosi, di calze colorate, di Befane e quant’altro; ma anche di serie e lunghe passeggiate e di gite di tutti i tipi: nelle due deliziose città di Feltre e Belluno, e in giro per i monti circostanti.
Molte volte si andava su verso la chiesetta di san Mauro appollaiata in alto sul monte, senza raggiungerla ma fermandoci in qualche punto della salita, magari dopo i resti semidistrutti di una carbonaia. La prima parte del sentiero era facile: passavamo davanti all’edicola di sant’Antonio e al piccolo cippo che ricordava una donna di nome Pioggia Todoverto Rosa, che era scivolata a valle in un punto scosceso, poi si proseguiva in mezzo al bosco; ma solo una volta facemmo una sosta alle Casere Noie, ed è stato un pomeriggio che non ho mai dimenticato. Sembrava un luogo appena abbandonato da gente che ormai se n’era andata per sempre; ma girandoci intorno, sentimmo vesti frusciare, e le parole sconosciute dei fantasmi che vi si aggiravano ancora. Erano abbandonate da tempo, ma non da troppo tempo: così in cucina c’erano una vecchia padella di ferro, un paio di mestoli di legno ammuffito, una scodella sbrecciata ma ancora vivida dei vivaci colori con cui era stata decorata, e un tavolo molto tarlato e molto traballante. Davanti, si apriva stretta e minacciosa la Val Scura dove scorreva il torrente Veses. Una valle cupa davvero e piena di ombre, su cui aleggiavano penosi ricordi.
Avevamo sentito accennare al fatto che durante la guerra le Casere Noie erano state un rifugio di partigiani, e che erano state prese di mira dai tedeschi, ma non conoscevamo i dettagli di quella vicenda; tuttavia, in quel pomeriggio ci sembrò che le paure, le angosce e gli orrori di quel periodo si fossero come rappresi nel tempo, e indugiassero ancora in quella valle romita e sconosciuta, come la testimonianza muta e possente di un antico dolore.
Ci sentimmo a disagio, e non mangiammo i nostri panini che dopo aver ripreso il sentiero, davanti alla vecchia carbonaia. E da allora evitammo di tornarci. Ma oggi ormai il bosco, nella sua marcia inesorabile, ha avviluppato i muri cadenti e i resti delle tracce umane nelle case abbandonate con la sua verde forza vitale. Il fresco, impetuoso torrente Veses scende a valle con intatta energia, e la sua via d’acqua riveste la Val Scura di erbe e di animali, come un piccolo, prezioso Paradiso Terrestre dai colori cangianti e dall’incanto immutabile.