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Del mio amore per la Valbelluna

e di una sosta a Casere Noie

Del mio amore per la Valbelluna

e di una sosta a Casere Noie
Antonia Arslan nella sua casa a Campel di S. Giustina

Da bambina, il centro del mio mondo era Susin, frazione di Sospirolo, luogo amatissimo fra le dolci colline del bellunese, alle pendici di tre montagne di cui noi recitavamo i nomi in fila, e guai a sbagliare! Là stavano i nonni Virginia e Carlo, lassù la loro casa dalla forma un po’ stramba emanava il calore del nido, e mi piaceva più della casa di Padova. La villa del Dolo sulla Riviera del Brenta era ormai perduta per sempre.

Nella grande cucina bassa, lunga e umida, e nell’ampia stanza che la precedeva, col tavolone in mezzo dai mille cassettini, regnavano la nonna e la signora Maria, autrice e dispensatrice del purè migliore del mondo: ma siccome nonna Virginia faceva – secondo noi – la torta di noci e cioccolata migliore del mondo, le nostre valutazioni culinarie si equivalevano (salvo che la signora Maria si prestava volentieri a farci il purè, mentre la nonna si faceva pregare a lungo, e si concedeva raramente…)

Un cassetto dal lato corto del tavolo era però esclusivo dominio di nonno Carlo e del suo famoso coltellaccio, che di solito ci stava dentro, ben riposto e avvolto in un telo bianco, affilatissimo e usato solo per affettare il prosciutto che il nonno si faceva venire da un amico di Trieste. Erano entrambi vecchi alpini, compagni d’arme nella Grande Guerra, ed avevano tutti e due rischiato di morire sotto un attacco di gas nervini. La loro amicizia era leggendaria e ci veniva raccontata nelle ‘storie della sera nonnesche’ (probabilmente, a pensarci oggi, con molte infiorettature).

Poi i nonni morirono, e la casa rimase a uno zio. Nel frattempo, il paese di Susin perse il suo bellissimo albergo liberty, la macelleria, il panificio che faceva i panini con la zucca e con l’uva migliori della vallata, l’emporio dove nonne e zie trovavano e compravano di tutto.
La farmacia della signora Dirce, rinomato centro di chiacchiere e notizie, dove tutti passavamo almeno una volta al giorno, venne trasferita a Sospirolo. Ma io amavo la Val Belluna con tutto il cuore, e con il mio Paolo e con Carlo, il mio fratellino minore, cominciammo a cercare un altro luogo da amare.

Dopo lunghe ricerche lo trovammo, in cima a una frazione sperduta del comune di Santa Giustina: ci piacque subito il nome, Campel Alto, e la posizione di quella casetta abbandonata da dieci anni, che pareva come abbracciata dalla montagna. In cucina cresceva un robusto alberello, i muri erano coperti di muffe di diverso colore, il tetto pencolava tristissimo. Una vegetazione selvaggia incombeva da ogni lato, e nel vasto prato in forte pendio che si stendeva davanti, alcuni meli trascurati cercavano di sopravvivere. Nel breve selciato antistante pigre lucertole si godevano il sole. Ma a noi quel posto parve subito magico, isolato ma non troppo, con la valle aperta sotto fino all’orizzonte. Io scoprii dei carpini, uno dei miei alberi preferiti, e un folto di amabili noccioli, e un sentiero dietro la casa che portava lontano nei boschi.

Poi i nostri amici del cuore, Marta e Francesco, comprarono una seconda casetta un po’ più su sulla strada, e così ci demmo tutti da fare a restaurare e piantare alberi (io volli un bersò di carpini, ma non fu una grande idea…) e costruimmo insieme il nostro piccolo paradiso privato, ma aperto ad amici e bambini, pieno di risate, di Natali e Capodanni festosi, di calze colorate, di Befane e quant’altro; ma anche di serie e lunghe passeggiate e di gite di tutti i tipi: nelle due deliziose città di Feltre e Belluno, e in giro per i monti circostanti.

Molte volte si andava su verso la chiesetta di san Mauro appollaiata in alto sul monte, senza raggiungerla ma fermandoci in qualche punto della salita, magari dopo i resti semidistrutti di una carbonaia. La prima parte del sentiero era facile: passavamo davanti all’edicola di sant’Antonio e al piccolo cippo che ricordava una donna di nome Pioggia Todoverto Rosa, che era scivolata a valle in un punto scosceso, poi si proseguiva in mezzo al bosco; ma solo una volta facemmo una sosta alle Casere Noie, ed è stato un pomeriggio che non ho mai dimenticato. Sembrava un luogo appena abbandonato da gente che ormai se n’era andata per sempre; ma girandoci intorno, sentimmo vesti frusciare, e le parole sconosciute dei fantasmi che vi si aggiravano ancora. Erano abbandonate da tempo, ma non da troppo tempo: così in cucina c’erano una vecchia padella di ferro, un paio di mestoli di legno ammuffito, una scodella sbrecciata ma ancora vivida dei vivaci colori con cui era stata decorata, e un tavolo molto tarlato e molto traballante. Davanti, si apriva stretta e minacciosa la Val Scura dove scorreva il torrente Veses. Una valle cupa davvero e piena di ombre, su cui aleggiavano penosi ricordi.

Avevamo sentito accennare al fatto che durante la guerra le Casere Noie erano state un rifugio di partigiani, e che erano state prese di mira dai tedeschi, ma non conoscevamo i dettagli di quella vicenda; tuttavia, in quel pomeriggio ci sembrò che le paure, le angosce e gli orrori di quel periodo si fossero come rappresi nel tempo, e indugiassero ancora in quella valle romita e sconosciuta, come la testimonianza muta e possente di un antico dolore.

Ci sentimmo a disagio, e non mangiammo i nostri panini che dopo aver ripreso il sentiero, davanti alla vecchia carbonaia. E da allora evitammo di tornarci. Ma oggi ormai il bosco, nella sua marcia inesorabile, ha avviluppato i muri cadenti e i resti delle tracce umane nelle case abbandonate con la sua verde forza vitale. Il fresco, impetuoso torrente Veses scende a valle con intatta energia, e la sua via d’acqua riveste la Val Scura di erbe e di animali, come un piccolo, prezioso Paradiso Terrestre dai colori cangianti e dall’incanto immutabile.

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