Un tempo si abitava la montagna per necessità. Ora lei è tornata ad essere residenza per l’uomo che fugge dalle code e dall’inquinamento e cerca un nuovo contatto con la natura”. Così si legge nell’articolo introduttivo, in cui si fa riferimento alle coppie giovani che hanno scelto Campel per dimorare. Ma com’era 65 anni fa vivere nella frazione? Un articolo di Alceo Dalle Mule, comparso su “Il Gazzettino” del 23 dicembre 1956, nella rubrica “Folclore e problemi”, ci dà una fotografia di quello che era l’abitato allora, facendo saltare all’occhio diversità e similitudini tra oggi e ieri. Ritratto che vale anche per molte altre frazioni della Valbelluna, dove ritroviamo invariate le stesse problematiche, oggi più vive che mai.
Campel è la più alta delle nostre frazioni. Di lassù si può scorgere tutta l’estensione del nostro Comune dal Piave alle Alpi. Vista ottima di lassù: di giorno l’intera vallata, di notte quel suo trapungersi di luci: moltissime, di qua di là del Piave, bianche colorate; più grandi o più piccole, a frantumi, lontano. E s’è sereno, altre, quelle del cielo.
E dopo la vista, buona la gente: gente che mantiene nel passo ancora la fatica delle sue strade e nelle vesti la fatica del vivere. Quassù tutto costa fatica: arrivarvi, vivervi, coltivare, salirvi, discendere. La strada ha pendenze del venti per cento e arriva lassù con tanta pena che, dove incontra altri tre viottoli (chiamali mulattiere), si ferma e si lascia chiamare piazzola: a tre livelli diversi vi trovi latteria, chiesetta e un caseggiato, e questo è il centro. Le altre case sono disperse e non le vedi: o solitarie, sepolte nella valle, ove il pendio s’appiani in una breve falda; o aggrappate, quasi senza corte, nel declivio del Palmar, a cintura fino a Cesio, quasi. Il terreno coltivato è poco e mai arato: si lavora a vanga: un po’ di granoturco, qualche vite e fieno. Questo è prezioso.
Lo si ricava anche più su: un taglio solo, che dura giorni (e notti) sulle “Sorti”, i terreni comunali che non possono essere pascoli perché troppo ripidi.
Il carro agricolo non serve e non c’è. Le strade sono canaloni sassosi e la treggia senza ruote è il loro veicolo che sale infilato sulle spalle del montanaro e scende carico e travolgente sui sassi rotolanti, frenato dalle robuste gambe di chi la pilota. E nella treggia discende anche la legna del bosco: qui l’animale dà latte ma non aiuto.
Quasi tutte le case sono fatte con la povertà tecnico ed economica di uno o due secoli fa: migliorarle è fatica perché il denaro è poco ed è guadagnato all’estero, quindi doppiamente prezioso E non c’è acqua per bere: la puoi trovare scendendo nella valle, cento metri più sotto: è abbondante ma non sale.
L’Amministrazione comunale l’ha fatta cercare con pazienza e speranza, un po’ dovunque: non c’è, pare. Occorrerà sollevare quella della valle. Si sta studiando come. Occorre far presto però; perché quando agghiaccia gli uomini scendono alla fonte con scarpe ferrate: ma gli animali stramazzano e allora occorre portare e riportare acqua alle stalle spesso lontane, con dislivelli faticosi. D’inverno gli uomini tornano dall’emigrazione stagionale e daranno la loro opera per un po’ d’acqua a meno fatica.
Aspettano anche il telefono quelli di Campel ed anche il telefono è urgente. Il medico e la Farmacia sono a cinque chilometri di distanza e più di trecento di dislivello; il sacerdote a due chilometri dalle case più vicine: sono a S. Giustina e a Cergnai che di quassù si vedono, ma che a raggiungerli se c’è la neve o il ghiaccio è un’altra cosa. Ma l’Amministrazione sta provvedendo. Ha già dato una Scuola, illuminazione, lavori sulle strade. A Campel c’è ora anche un’osteria ed un negozietto dove trovi di tutto. È l’isolamento che si sfalda: è la fatica di vivere quassù che diminuisce? A noi pare di sì.