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Andar per funghi

una tradizione, una scoperta, un'arte

Andar per funghi

una tradizione, una scoperta, un'arte

Andare a funghi, nella mia famiglia, è sempre stata una scusa. Ovvero, intendiamoci, l’intento in partenza era sempre quello di tornare con il cestino, se non pieno, che contenesse almeno qualche esemplare “pregiato”, ma se così non era, pazienza. Non ricordo di essere mai rientrata da nessuno di questi giri con la sensazione di aver sprecato tempo, anzi…

Fin dalla tenera età i miei genitori mi hanno portata per boschi insegnandomi a riconoscere i funghi “buoni” da quelli “matti” e ben presto sono stata in grado di partire da sola e girare nei dintorni di casa alla ricerca dei preziosi frutti del sottobosco. Ai tempi, la calzatura designata allo scopo era lo stivale di gomma, che invece oggigiorno è accusato di essere quasi sempre la causa degli incidenti che spesso occorrono agli appassionati cercatori, quindi molto meglio un paio di scarponcini. In realtà, andare a funghi era un modo per conoscere il mondo che mi circondava. Ogni volta c’era da imparare qualcosa, ogni uscita era un mucchio di scoperte e quello che so (poco) su flora e fauna delle Prealpi lo devo quasi esclusivamente a questi vagabondaggi.

Ho imparato, ad esempio, che nei paraggi di certi alberi, che mi è stato insegnato a riconoscere, è più facile trovare alcuni tipi di fungo; che c’è differenza tra una vipera e un “carbonaz”, ma che vanno lasciati stare entrambi. Ho incontrato salamandre, rospi, raganelle, chiocciole e ramarri. Ho potuto avvistare scoiattoli, lepri, caprioli. All’epoca ero stata ampiamente rassicurata sul fatto che in queste zone non c’erano orsi o lupi, ma mi hanno altresì insegnato a fare attenzione a un altro “pericolo”, ovvero il “trevisan”. Incontrarne uno significava tornare alla macchina senza perder tempo a girare che tanto funghi non se ne sarebbero trovati perché “quelli prendon su tutto”!

Ho imparato che se un fungo non è commestibile, lo si lascia dove è senza estirparlo o capovolgerlo o distruggerlo, unica eccezione, le “vesce” quando sono marroncine e schiacciandole fanno uscire le spore come se fosse del fumo. Ho imparato che si deve usare il cestino e mai le borse di plastica.

Durante queste escursioni ho capito che nel bosco è quasi impossibile morire di fame: fragole, more, castagne, nocciole, cornioli, lamponi… certe volte mi è capitato di fare vere e proprie indigestioni e anche oggi, all’occasione, non disdegno di prelevare tutto questo ben di Dio direttamente dalla pianta. Andare per boschi mi ha insegnato che, come nella vita, stagioni diverse portano frutti diversi: ci sono funghi primaverili e altri autunnali e ci sono alcune tipologie che hanno la tendenza a crescere più o meno sempre negli stessi luoghi e questi posti un fungaiolo non li rivelerà mai nemmeno sotto tortura!

Sembrerà incredibile ma anche la grammatica rientra tra le materie cui l’attività del cercar funghi consente un ripasso, in special modo dei sinonimi. Infatti, ogni fungo ha molti nomi differenti: quello scientifico, quello comune e quello in dialetto, che varia da zona a zona. Così il porcino può anche chiamarsi boleto o brisa; i chiodini famigliola o funghi della brosa.

Succede a volte che il bottino sia scarso, oppure che non ce ne sia proprio e allora il cestino torna a casa pieno di profumati ciclamini. Ma, a conti fatti, la cosa più bella che ho imparato andando a funghi è il vagare lento e senza meta per i boschi, accompagnata dai rumori del vento e degli animali con la possibilità, mentre frugo tra le foglie secche col bastone o alzo il ramo di un cespuglio, di lasciar volare la fantasia, di riflettere e pensare a tante cose, ad esempio agli articoli da scrivere per il Veses.

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