Durante una pausa pranzo ammise di avere paura di cani e serpenti: timore fondato se nel Paese in cui vivi ci sono cani paria pronti a mordere e serpenti dal morso esiziale. Tuttavia, mi raccontò che qualora si venisse morsi da un serpente velenoso e si iniziasse a vomitare, seguendo i dettami della medicina tradizionale, c’è una possibilità di salvarsi: il vomito non deve toccare terra. Poco dopo, alle mie domande circa altri animali, mi rispose che lì i gatti vengono eliminati a sassate: i gatti sono streghe trasformate. “E leoni o altri grandi felini?” chiesi stupito. “Leoni non so, ma leopardi sì, nella foresta o nei giardini delle persone ricche, dentro delle gabbie”. Alla mia muta incredulità aggiunse di non essere mai stato nella foresta per paura: al massimo si è fermato al limite, dietro la fattoria di suo padre, dove le scimmie fanno baccano, urlano e battono sui tronchi degli alberi. A caccia infatti si va principalmente nelle pianure per le antilopi e i ratti dei bambù africani, delle specie di grosse nutrie del genere Thryonomys, che come suggerisce il nome greco (thryon, canna e mys, topo) significa proprio topo delle canne.
Nel suo Paese alcune persone credono nell’Onidani, una religione monoteistica che vede un unico dio come divinità suprema e creatrice del mondo, accompagnata però da un pantheon di spiriti che si incarnano nella natura. Ciò porta con sé pratiche culturali, mediche e apotropaiche che spesso fanno più male che bene. Non solo altre famiglie o persone estranee, ma persino i propri familiari, quando avari, possono essere il bersaglio di maledizioni, malocchi e persino atti violenti, specie se in questa famiglia c’è una strega: da qui l’usanza di uccidere i gatti. Alcuni poi si affidano alla medicina locale a base di erbe e fiori della foresta o, peggio ancora, acquistano amuleti che millantano una protezione addirittura verso lame e armi da fuoco: spesso queste persone muoiono. Per fortuna, essendo la Nigeria un paese a maggioranza cattolico-protestante e islamica, questi discorsi di Ambrose riguardano una piccola parte degli abitanti.
Ambrose Ayaigbe è un ventiseienne venuto ad abitare qui in valle quattro anni fa, un ragazzo a cui piace svolgere il lavoro che fa, attualmente impiegato come piastrellista presso un’azienda edile di Lentiai. Parla inglese con l’inflessione creola del luogo natale, conosce un po’ l’Ika, il dialetto locale della lingua Igbo, e spiaccica qualche frase in italiano: ma quest’ultimo più per timidezza che per incompetenza.
Contattato tramite Vito Hotellier, con una stanza e un computer offerti da Lorenzo Durante dell’associazione Auser, mi sono proposto di aiutare questo ragazzo a superare un corso di formazione professionale. Il mio compito è stato quello di dargli una mano a capire quanto veniva detto e di tradurre le consegne delle verifiche e dei questionari, mansione che ha messo a dura prova le mie conoscenze della lingua inglese e le mie capacità di interprete. Tutto ciò non sarebbe stato possibile se Vito Hottellier non si fosse preso cura di questo ragazzo e del suo coinquilino Obi, dal giorno in cui li ha incontrati in chiesa.
Sono le persone come lui che vanno ringraziate nel loro rinnovare la speranza verso l’accoglienza dei migranti; che fanno delle opere buone direttamente dal cuore, lungi da qualsiasi fine di lucro; che decidono di dare una seconda possibilità a questi uomini e donne non così dissimili da un qualsiasi italiano, nostri conspecifici sapiens sapiens scappati dal Meditterraneo che fin troppi corpi ha inghiottito; persone che, come il pio Enea che si caricò sulle spalle il padre malato, cardine della famiglia e custode dei valori, si fanno carico di quel valore fondamentale per la coesione e il benessere sociale, ovvero l’integrazione degli emarginati, coloro che vivono nei margini, i migranti in questo caso.